Medea 2.0 si intitola lo spettacolo teatrale scritto e diretto da Martina Iacoangeli a cui ho potuto assistere venerdì 21 ottobre scorso presso il teatro Antigone di Roma. Non è casuale la ripresa di questa figura tragica che anche se molto stilizzata comunque è attraversata da un conflitto interiore che la umanizza. Eppure la scelta dell’autrice-regista non è stata quella di ‘psicologgizzare’ il personaggio e questo – insieme alla scelta di abolire gli altri personaggi sostituendoli con un coro – ha contribuito a togliere di scena (per citare Carmelo Bene) il teatro inteso come rappresentazione. Non vi era nemmeno la ribalta a proteggere e difendere gli attori in scena – lo spettacolo infatti si è svolto in una cantina adibita a teatro. In questa pièce teatrale non v’è spazio per personaggi ed attori che credano che ben recitare significhi immedesimarsi. In effetti non v’erano personaggi come non v’era drammatizzazione di un testo a monte (sempre per citare Carmelo Bene) – potremmo dire che il testo stesso della tragedia di Euripide sia stato sottoposto a tutta una serie di mutilazioni anche violente e non rispettose della ‘sacralità’ dell’opera, che hanno in primo luogo decostruito il testo per poi mostrarne quanto ne restava come l’occasione propizia per farne da discorso un canto – da questo punto di vista le musiche non accompagnavano didascalicamente il dramma, ma nascevano dalle rovine di una storia; erano voci provenienti da un passato arcaico, immemorabile da cui proviene e parla la stessa Medea.
L’autrice sembra ben conoscere l’obiezione che Nietzsche ne La nascita della tragedia solleva a Euripide: con quest’ultimo – influenzato in maniera decisiva dal razionalista Socrate – finisce la tragedia caratterizzata dal dissidio dinamico di apollineo e dionisiaco: al coro tragico si sostituiscono definitivamente dei personaggi forniti di un certo carattere e capaci di argomentare razionalmente le loro scelte; quindi si tratta di veri e propri soggetti dotati di una loro psicologia che drammatizzano una storia rappresentandola davanti ad un pubblico ridotto all’avvilente ruolo di spettatore, separato dalla scena che proprio per questo viene ridotta a spettacolo. Martina Iacoangeli, invece, col suo lavoro cerca di regredire a quel livello profondo che potremmo chiamare l’arcaico dove il coro aveva un ruolo preponderante nella tragedia; un coro da cui a fatica emergeva l’eroe tragico e dove la coppia apollineo-dionisiaco era avvertita in tutta la sua forza come irricomponibile ed irriducibile a rappresentazione. A questa coppia impossibile da ridurre a concetto in Euripide si sostituisce la coppia dionisiaco-razionale per cui i vari personaggi hanno delle ragioni da difendere argomentando appunto razionalmente. L’autrice-regista, invece, decide di fare un passo indietro verso quell’arcaico (ancora vivo in Eschilo) che è ormai per noi – moderni Giasoni – quasi inaccessibile. Ebbene in qualche modo si cerca di dischiudere una soglia che permetta a questo arcaico di emergere.
La stessa figura di Medea è l’espressione più viva e vera di questo emergere dell’arcaico e della tragica impossibilità di viverlo oggi. In questo senso, non solo nella pièce teatrale in questione ma nella stessa tragedia di Euripide è in gioco una perdita assoluta ovvero qualcosa che non solo abbiamo perduto, ma che non ci rendiamo nemmeno conto di aver perduto. E Medea in questo senso rappresenta appunto il ritorno del rimosso: ecco la sua irrazionalità che ci spaventa non tanto per la sua violenza, ma molto più per la sua indecifrabilità – e qui sarebbe troppo facile anche se molto indicativo richiamarsi ai molteplici fatti di cronaca nera di cui ci danno notizia i telegiornali dove una madre ‘incomprensibilmente’ (si parla genericamente di “raptus”) uccide i suoi figli. Il merito di aver posto la questione va innanzitutto a Pier Paolo Pasolini che con la sua Medea ha colto con esattezza il punto. Infatti Medea non appartiene al mondo di quel Giasone di cui si innamora perdutamente – quello è propriamente il mondo moderno regolato da una ragione calcolante, utilitaristica e strumentale; mondo che nasce con la nascita della polis greca e che ha segnato di sé tutto il resto della storia dell’Occidente. Per amore di questo Giasone Medea sacrifica tutto: aiuta Giasone a rubare il vello d’oro – simbolo di quella religiosità arcaica di cui Medea era espressione essendo lei stessa una sacerdotessa, officiante di questi arcaici culti inconciliabili con quella che è l’idea che noi moderni abbiamo del religioso o dello spirituale. Arriva a sacrificare anche i legami familiari, anch’essi sacri, pur di facilitare la fuga di Giasone che ama follemente al punto di fuggire con lui verso un mondo a lei ignoto che si rivelerà presto incompatibile con la sua originaria provenienza da un luogo dove non esiste nemmeno l’opposizione tra sacro e profano, perché tutto è avvolto in una sacralità mitica ed arcaica. Medea è disposta a perdere tutto questo per amore – al potere numinoso del mito sostituisce il potere di eros e va via con Giasone abbandonando tutto e tutti. Ma non può abbandonare quella parte di sé che ancora partecipa di quel mondo magico e crudele che per amore credeva di potersi lasciare alle spalle.
La scelta da parte della Iacoangeli di presentare una Medea napoletana – che strappata alla sua casa, alla sua terra, alla sua famiglia, viene trascinata da un amore sconvolgente nel settentrione d’Italia da un Giasone opportunista e calcolatore che l’abbandona e tradisce cercando non tanto l’amore ma il proprio interesse incantando questa volta la figlia del suo datore di lavoro – ben esprime mutatis mutandis la passionalità di Medea. Una passionalità che non è solo un sentimento, ma è qualcosa di viscerale che non viene mai rappresentato in maniera retorica – in scena per tutta la prima parte della pièce vediamo sì Medea, ma è una Medea che non agisce limitandosi, invece, a scrivere seduta a un tavolo una lettera ai familiari che lei stessa ha abbandonato a Napoli per seguire Giasone. Quest’ultimo aspetto va sottolineato in quanto sembra alludere ad una pratica di scrittura di scena (ancora Carmelo Bene) che differisce fondamentalmente dall’esecuzione sul palcoscenico di determinati gesti volti a rappresentare artificialmente e convenzionalmente un carattere o una storia. In questo senso forte, anche se spostato, potremmo dire che la Iacoangeli s-drammatizza l’opera in questione liberando (almeno in potenza) l’attore dai due suoi padroni: il drammaturgo e il regista. Allora la recitazione, a cui è chiamato l’attore, è più un modo di scrivere che un modo di rappresentare. Infatti il rappresentare una realtà quale che sia ha il potere di oggettivare quanto ridotto a rappresentazione così favorendo quella manipolazione della realtà che caratterizza l’operare della moderna ragione calcolante – allora la pretesa di ridurre a rappresentazione il mito vuol dire necessariamente smarrire la sua provenienza per ridurlo allo statuto di storia da raccontare. Ma qui tutto si gioca sulla consapevolezza che l’arcaico non può essere ridotto a rappresentazione a meno di perderlo o fraintenderlo – per questo abbiamo parlato dell’operazione (di pensiero prima ancora che di messa in scena) dell’aprire una soglia da cui possa affacciarsi l’arcaico. Un arcaico che prorompe violentemente in Medea appena scopre il tradimento di Giasone. Il tradimento in questione non è solo la rottura di una relazione amorosa tra un uomo e una donna che comporterebbe fedeltà, dedizione ed amore – tanto più che Giasone non tradisce per amore Medea, ma per calcolo utilitaristico e politico: se sposa la figlia del suo capo ne erediterà il patrimonio e l’azienda. Se il comportamento di Medea fosse quello di una donna tradita dal marito non si comprenderebbe l’enormità della vendetta che essa prepara e pone in atto. Qui bisogna evitare di psicologizzare il personaggio di Medea – in gioco, infatti, è il cercare di comprendere l’incomprensibile: l’uccisione non solo della rivale, ma dei propri figli al fine di distruggere Giasone e con lui tutte quelle certezze che costituiscono i punti di riferimento per l’uomo borghese che egli rappresenta e a cui Medea aveva provato per amore ad adeguarsi.
Medea incarna il ritorno del rimosso: l’arcaico, a cui lei stessa apparteneva e che aveva sacrificato per amore, ritorna violento ed incomprensibile fino a diventare osceno – tanto osceno da non poter essere rappresentato. Anche qui la regista ha colto nel segno: invece di rappresentare in scena l’efferato delitto e la folle figura di Medea – che troneggia in alto a bordo del carro del Sole, mentre Giasone a terra si dispera per la sua sorte – lo fa raccontare dalla balia dei suoi due figli che durante una specie di interrogatorio di polizia racconta l’irriferibile che pure è successo. Anche nella tragedia greca la morte efferata dell’eroe non veniva rappresentata – questo è il significato originario della parola “osceno”: osceno è ciò che non può essere messo in scena (direbbe ancora una volta Carmelo Bene), è ciò che non può essere rappresentato non solo a causa della sua efferatezza, ma soprattutto perché rappresentarlo significherebbe ricomprenderlo nei termini di una ragione rappresentativa che è l’altra faccia di una ragione strumentale.
Molto altro si potrebbe dire dell’operazione teatrale tentata da Martina Iacoangeli – qui ci limiteremo a sottolineare di questo tentativo la capacità di uscire dalle secche del Teatro della Rappresentazione di Stato (ancora una volta Carmelo Bene) per recuperare (e non solo sotto la forma di una compiaciuta citazione) alcune delle questioni costitutive del teatro e della tragedia greca che alla fine sono all’origine di un certo modo di sentire: il nostro.
Stefano Valente