Con l’ultimo documentario In the Basement, presentato Fuori Concorso a Venezia71, Ulrich Seidl si era introdotto nelle cantine dei suoi connazionali per scoprire e svelare i segreti più intimi e disparati degli intervistati. Alcune delle passioni mostrate nel documentario, che ha sancito il ritorno al genere del regista austriaco, erano solo una messa in scena, altre invece no.
Poco importava distinguere realtà da finzione, ciò che l’occhio osservatore del regista voleva mettere a fuoco erano i segreti dell’essere umano, localizzati simbolicamente nella cantina, luogo remoto e isolato, perfetto pertanto per abbandonarsi alle fantasie più trasgressive. In Safari, documentario presentato quest’anno Fuori Concorso al Lido, Seidl si confronta con una tematica ostica e controversa, la caccia. Tedeschi e austriaci si recano in Africa per uccidere giraffe, zebre, bufali e gnu e farne un trofeo. Quello che l’impassibile e ironico Seidl mostra è l’atto della caccia, le motivazioni del cacciatore, le sue emozioni, la barbarie subite dall’animale, e ancora il rapporto tra ‘uomo bianco’ e ‘uomo nero’, già affrontato nel film-episodio Paradies: Liebe della trilogia Paradies in un’altra sfaccettatura. In questo capitolo della saga, infatti, Seidl esplorava col suo fare pacato e pungente, con la sua estetica del mostrare corpi e intenzioni, il turismo sessuale in Kenya praticato dalle donne occidentali di età matura.
Con Safari il popolo africano che ospita e subisce il turismo di caccia sembra rimanere defilato, oscurato dalle azioni di esaltati predatori, eppure c’è, è proprio lì nello sguardo e nel comportamento del turista in vacanza che depreda illudendosi di giovare. Seidl osserva, osserva e lascia parlare i cacciatori con le loro teorie assurde e razziste: aiuterebbero a morire gli animali più anziani, favorirebbero la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo…Intanto anche noi veniamo coinvolti nelle battute di caccia dove l’uomo (o donna) col fucile è aiutato da una guida ‘bianca’ e una ‘nera’ del luogo, a cui poi spetterà anche la mattanza dell’animale. Si punta alla zona vitale dell’animale, si spara, si abbatte il bellissimo esemplare preso di mira, lo si cerca seguendone le tracce del sangue. A questo rituale ne segue un altro, ancora più brutale, a cui Seidl non si e ci sottrae. I cacciatori parlano di colpi perfetti, elencano il listino prezzo degli animali, ricordano con timore il trauma dell’animale colpito e non ritrovato, di reazione dell’animale al colpo inferto. E noi, intanto, assistiamo all’inutilità di una pratica meschina e d’intrattenimento che vede spegnersi lentamente una giraffa agonizzante, con il lungo collo che ora si rianima e ora cede per accasciarsi per sempre. La caccia mostrata da Seidl estrapola e isola l’estetica dall’atto primordiale della sopravvivenza: la famiglia di cacciatori dell’ovest non ha la necessità di nutrirsi bensì il desiderio di conquistare un futile trofeo, una foto con la carcassa, una testa imbalsamata e la deridibile quanto deprecabile idea di essere in qualche modo d’aiuto al sistema.
Ritornano i marchi di fabbrica di Seidl, le inquadrature statiche, simmetriche e frontali dalle figure ben disposte al centro, connotate dal contrasto tra le pose vanesie e autocelebrative dei ‘bianchi’ e quelle veraci e primitive dei ‘neri’ che scuoiano e addentano la carne e il seguire con la camera le azioni ponendosi dietro i protagonisti. Con ironia sua e disprezzo nostro, l’immagine della razza umana – tutta, senza calarsi nel dettaglio austriaco che ha il vizietto di tradire una certa mania di superiorità – che ne viene fuori è triste e crudele, razzista e barbara. Tant’è che se l’uomo – quella creatura al vertice dell’organizzazione piramidale della natura – si estinguesse, la terra sarebbe un posto migliore.
Francesca Vantaggiato