Dal profondo è un documentario del 2013 diretto da Valentina Pedicini.
Una lunga notte senza fine, senza stagioni, senza tempo. Un lavoro secolare che e orgoglio, maledizione. Km di gallerie. Buio. Uomini neri. Una donna. Patrizia, unica minatrice in Italia dialoga con un padre morto, un ricordo mai sepolto. 150 minatori, gli ultimi, pronti a dare guerra al mondo “di sopra” per scongiurare una chiusura ormai imminente. Dal Profondo girato interamente 500 metri sotto il livello del mare, una “voce” che arriva dal centro della terra, una preghiera che ai morti è dedicata, ai vivi chiede ascolto: “De profundis, clamavi ad te, O Domine…”.
La recensione di Taxi Drivers (Luca Biscontini)
La polvere scende incessante sui volti, sulle tutte da lavoro, si insinua nei polmoni, arriva dappertutto, impudicamente, ogni cosa è velata, profanata; non c’è riparo, si è esposti impietosamente a una pioggia di terra che ingrigisce i corpi, e il tempo non è più il ‘nostro’ tempo, è un altro tempo, un tempo ‘morto’, di morte. Dal profondo di Valentina Pedicini non è solo un film politico o di denuncia, ma, innanzitutto, una profonda riflessione sulla condizione umana, laddove lo sguardo si sofferma su una prospettiva che, smarcandosi dalla retorica della rivendicazione sociale, accompagna lo spettatore in un ‘viaggio’ in cui, parafrasando Celine, ‘la notte non termina’. Siamo a cinquecento metri sotto terra, in una miniera di carbone della Barbagia, in Sardegna, e in un’atmosfera da catastrofe imminente seguiamo le vicende di una minatrice, Patrizia (l’unica donna del gruppo), e dei suoi colleghi. I silenzi dei lavoratori vengono interrotti dai rumori dei macchinari, delle perforatrici, dei carrelli mobili che riportano in superficie quintali di carbone, accatastati successivamente all’esterno e rimasti invenduti.
Una soggettiva all’inizio del film ci restituisce efficacemente la sensazione della discesa ‘nel profondo’ e un senso di claustrofobia immediatamente ci assale; la luce naturale lentamente lascia il passo all’asetticità di quella artificiale, e si continua a scendere, sempre di più. Nei sotterranei seguiamo le operazioni quotidiane dei minatori, sentiamo (o ci sembra di sentire) i loro respiri affannati dietro la copertura della mascherine e percepiamo l’ansia malcelata di chi ogni giorno s’imbatte nel buio. L’ottima fotografia di Jakob Stark rende assai bene l’idea di un mondo altro, fatto di leggi proprie, in cui vige una sospensione dei normali rapporti operanti all’esterno. Particolarmente significativa risulta la sequenza in cui Patrizia, dopo essere risalita in superficie, si osserva allo specchio: il blu dei suoi occhi è contornato dal grigio di quel mondo che pare non abbandonarla mai, è come se una parte di esso rimanesse sempre con lei, braccandola anche fuori. Ma ciò che più colpisce – e che poi è anche emerso nel dibattito a fine proiezione con la regista – è il fatto che, pur conoscendo bene tutti i lati negativi della faccenda, i giovani vogliano ancora, in virtù di una tradizione famigliare, continuare a praticare questo mestiere. Sanno benissimo che si rovineranno la salute, che saranno costretti a vivere per la maggior parte del loro tempo nell’oscurità, eppure non riescono neanche ad immaginare un’alternativa a questa scelta. È come se fossero stati completamente sussunti dal sistema dei rapporti di produzione, resi inabili a concepire la possibilità di un futuro diverso. O, per dirla in gergo psicanalitico, è come se la pulsione di morte avesse preso il pieno sopravvento.
Valentina Pedicini costruisce un film fortemente lirico con esattezza matematica, calibrando i tempi, padroneggiando le atmosfere, riducendo i dialoghi all’osso, senza mai farsi sedurre dalla tentazione di ammiccare allo spettatore, fornendogli qualche appiglio per una facile retorica. Scelta coraggiosa che giustamente è stata premiata anche alla settima edizione del Visioni Fuori Raccordo.