Connect with us

Interviews

Florencia Santucho racconta ‘Identidad’ come diritto essenziale

Il Cinema come Azione Civile: l'impatto sui giovani e sulla società in cui regna il negazionismo.

Pubblicato

il

Florencia Santucho ha portato al Roma Independent Documentary Festival (RIDF) il suo intenso e toccante documentario, Identidad. L’opera, co-diretta con Rodrigo Vazquez-Salessi, non è soltanto un film sulla storia argentina, ma un racconto profondamente personale e politico. Il documentario segue la vicenda del fratello di Florencia, Daniel, riconosciuto come il Nieto 133 dalle Abuelas de Plaza de Mayo. Questo ritrovamento, per la regista, ha significato non solo l’inizio di un legame familiare, ma anche l’assunzione di un doppio ruolo complesso: quello di sorella che vive la gioia del ricongiungimento, e quello di cineasta che deve inquadrare e narrare una verità così intima e personale. Attraverso la storia di Daniel, Identidad si eleva a una riflessione urgente e universale sul diritto all’Identità, un concetto che, secondo Santucho, viene percepito in modo radicalmente diverso in America Latina rispetto all’Europa.

Allora la prima domanda: volevo concentrarmi sul fatto che non sei solo la regista, ma ricopri anche la veste di famiglia ristretta in questo film. E questo trovo che cambi completamente la prospettiva emotiva del film. Come hai gestito questo doppio ruolo? Volevo chiederti se ci fosse stato un conflitto tra l’occhio della regista, che deve comunque cercare l’inquadratura, organizzare il tutto, e la parte emotiva. Perché comunque ti vediamo pure poi effettivamente nel film, anche davanti alla telecamera.

Sì, effettivamente è stata una scelta difficile perché sentivo la necessità di raccontare questa storia. Nell’immediatezza del racconto, proprio perché erano momenti unici che stavamo vivendo realmente per la prima volta con mio fratello e la sua famiglia. Era inevitabile che ci fosse anche una situazione di difficoltà. In quel momento io non avevo ancora del tutto conosciuto, per esempio, le mie nipoti.

Lui l’avevo visto in Italia, era venuto poco dopo essere stato ritrovato. Invece le figlie le stavo conoscendo ora, le avevo incontrate solo quattro volte. Quindi c’era quella difficoltà nel punto di incontro tra la regista e la sorella di Daniel. Io stessa dovevo cambiare veste costantemente: da un lato riuscire ad essere obiettiva quando avevo bisogno di seguire il racconto; dall’altro essere invece permeata da questa nostra emozione del ritrovamento.

Per questo è stato importantissimo avere Rodrigo. Lui sin dall’inizio mi ha proposto e sostenuto nella ricerca dei fondi, in questo caso di Al Jazeera, per realizzare il primo cortometraggio che ci ha poi permesso di lavorare sul film. Sapere che avevo la sponda di appoggiarmi su di lui, e lasciarmi andare nei momenti in cui avevo bisogno di connettermi con la mia famiglia, è stata una grande sicurezza che mi ha dato molta tranquillità.

Però è anche stato possibile perché Daniel ha trasmesso alla sua famiglia il bisogno e il piacere che aveva di fare questo film. Quindi loro si sono sentiti a loro agio. C’ero io e anche Miguel, mio padre; non erano stati mai abituati a fare un documentario di questo tipo, così intimo per la famiglia. Al tempo stesso si riusciva a seguire anche i momenti intimi grazie alla presenza di Rodrigo e di un altro operatore molto di fiducia per noi.

La reazione della famiglia e la paura iniziale in Identidad

Sono contenta. E quindi inizialmente quando hai raccontato a tutta la tua famiglia del progetto, quindi anche a Miguel e tutti gli altri, come hanno reagito? Sin da subito erano d’accordo o all’inizio è stato un po’ difficile decidere di mettersi a nudo dinanzi alla cinepresa? Perché comunque, come giustamente dicevi, vivono le emozioni per la prima volta, quindi non sanno poi effettivamente quale sarà la loro reazione che poi si vedrà sullo schermo. Quindi immagino che non sia stato facile.

No, non è stato facile. Anche se non dipendeva dal fatto che la famiglia di per sé non fosse abituata a fare interviste o a fare incontri pubblici. Fondamentalmente quella parte della mia famiglia in Argentina è sempre molto presente, anche nell’abitudine di trasmettere a livello di media storie politiche legate ai diritti umani. Ma appunto una cosa diversa è la famiglia, gli aspetti più intimi. I tanti abbracci che si vedono nel documentario sono veri. In quella emozione del contatto, dello stare di nuovo insieme, dei pianti, non era facile poter raccontare da dentro.

L’unico ostacolo inizialmente è stata la paura che Daniel potesse viverlo male. Purtroppo ci sono diverse storie di Nietos recuperados in cui alcuni si sono inizialmente avvicinati alla famiglia, ma poi ad un certo punto si sono ritratti per paura, perché non si sentivano in realtà ancora pronti. O perché addirittura potevano essere contrari a certe manifestazioni pubbliche sui diritti umani.

Quindi Miguel, per esempio, mi chiedeva di fare attenzione, di andare piano, di chiedere costantemente a Daniel se era d’accordo. Io mi sono subito invece sentita molto sicura sulla volontà di Daniel di fare il documentario. Ovviamente lui non aveva mai avuto neanche un’intervista pubblica fino a quel momento. Era da poco diventato pubblico come figura, perché inizialmente per protezione i primi mesi non aveva rilasciato nessuna intervista, fino a poco prima che facessimo il documentario.

Questo mio sentire rispetto a Daniel penso che abbia rassicurato tutti quanti. Daniel, effettivamente, più andavamo avanti più era contento, più era sciolto davanti alla telecamera. Suggeriva scene, suggeriva situazioni, invitava persone per arricchire quel momento. E soprattutto è riuscito a rassicurare le figlie.

Uno degli ostacoli iniziali era proprio che le bambine, adolescenti o preadolescenti, non volessero assolutamente apparire sullo schermo. E questa cosa è stata molto delicata. Lì sì era la mia disgiuntiva: tra il mantenermi nell’emozione di non forzare una situazione che, come nuova zia, avevo difficoltà a gestire; e l’altra cercare invece, come regista, di favorire quello che era poi il risultato del film. Ho cercato di spingere ovviamente senza forzare, ma provando a convincere i genitori, e poi le bambine, sull’importanza della loro testimonianza.

Infatti ci siamo riusciti. Alla fine Milagros in particolare si è sentita di raccontare.  Ha parlato alla sua scuola del fatto che aveva cambiato cognome e del perché, con la presenza del padre. Quando si è rivista nel film è stata contenta di averlo fatto. Quindi sono io felice di aver potuto favorire e aiutare, senza che si sentissero obbligate né spinte a fare qualcosa che non volessero. Era importante far capire a tutti l’importanza del prodotto, cosa che ovviamente in quei momenti è difficile che si comprenda subito.

La sceneggiatura e la struttura narrativa

Immagino, che con le giovani, è molto più complesso spiegare tutto quello che andranno a fare. Ho notato poi una cosa molto interessante nei crediti, cioè che la sceneggiatura è firmata effettivamente da Rodrigo Vazquez-Salessi e non da te. E questa cosa mi incuriosisce molto, quindi volevo chiederti se è stata una scelta, diciamo, necessaria per dare una struttura più cinematografica. Oppure se è stato proprio per dare una scaletta di un flusso di eventi. Poi immagino che ci sia stata, come appunto mi stai anche dicendo, molta improvvisazione in base a come poi reagivano tutte le persone presenti.

Sì, perché appunto inizialmente il nostro finanziamento era di Al Jazeera. C’era bisogno di rispettare determinate richieste, determinati formati, soprattutto per il corto che ovviamente poi ha strutturato anche il lungo. Quindi io quella parte l’ho seguita, ho approvato e suggerito a mia volta, però si è dedicato Rodrigo a scriverla. Proprio perché anche per me diventava poi difficile immaginarmi cosa potessi effettivamente vivere nelle scene con la mia famiglia.

Per me la scelta di andare al Pozo de Banfield, per esempio, inizialmente era difficile. Non sapevo se avrebbero voluto. A livello cinematografico si capiva che era importante e quindi era stata scritta come scena. Dopodiché è successa una cosa incredibile. Comunque l’abbiamo vissuta in modo molto intenso. Ci siamo tutti molto emozionati e ha fatto bene alla famiglia, perché le bambine non erano mai andate al Pozo de Banfield.

Però fino a quel momento io non sapevo se sarei stata in grado di convincerli, di portarci tutti loro. Per cui diciamo è stato importante perché si è strutturato appunto come priorità a livello cinematografico e io sono riuscita a sentirmi più agile nel poi gestire la situazione. Se non fosse stato possibile andare con le bambine al Pozo de Banfield ovviamente avremmo cambiato scena. Ma il fatto che fosse stato proposto dall’inizio, e che Daniel in realtà avesse accettato dal primo momento, mi ha alleggerito della responsabilità di situazioni che ancora non sapevo come avrei potuto vivere io come sorella.

Documentario vs finzione

Certo, immagino, perché poi alla fine c’è tantissima improvvisazione nel documentario. Infatti in queste scene si vede proprio un’emotività fortissima, soprattutto quado Daniel entra nel luogo dove è avvenuta la sua nascita. Si tratta del suo unico contatto con la madre. Quindi quella è una scena potentissima, a mio parere, molto forte.

Sì, è stata spontanea ovviamente. Dopo aver vissuto tutto il percorso siamo riusciti io e lui a parlare più in intimità. La forza di quella scena e di quel momento è proprio che lui era orgoglioso di essere lì con le sue figlie, con tutti noi. Effettivamente sentiva che era necessario per il film.

Era un ulteriore sostegno per tutto il racconto che lui lo vivesse effettivamente come un momento necessario e doloroso. Ma che in realtà, come diceva lui, era l’ultimo luogo dove aveva vissuto con la madre, quindi in qualche maniera era il suo rifugio affettivo nei suoi confronti.

Infatti proprio questa scena mi ha poi suscitato una domanda, che è proprio come il linguaggio documentario sia effettivamente molto diverso da quello della finzione, ma soprattutto necessario per quanto mi riguarda anche per raccontare questo tipo di trauma. Secondo te la finzione rischia in qualche modo di “addomesticare” una realtà che invece dovrebbe rimanere un po’ più realistica, proprio come vediamo poi in Identitad, soprattutto in quella scena?

Sì, sicuramente la potenza del documentario è un racconto vivo che può mutare o anche trasformare le persone che lo vedono. A differenza del film di finzione: nel momento più crudo di una scena si pensa sempre che alla fine siano attori, che c’è una sceneggiatura, c’è una troupe dietro quelle telecamere.

Invece in quei momenti in cui si apre l’emozione, come è stato appunto nel caso di Banfield, sarebbe stato difficile trasmettere tutto quello che si stava generando di doloroso, ma anche di positivo. Quella trasformazione di quel dolore in potenza, in amore. In un film con attori non sarebbe stato lo stesso, perché invece lì si percepiva nell’aria e io credo che sia anche quello che raggiunge gli spettatori. 

L’impatto di Identidad sulle nuove generazioni

Poi  nel Q&A del RIDF hai menzionato che adesso ci sono molte proiezioni e che Daniel sta effettivamente andando in giro per l’ Argentina per portarlo anche nelle scuole. Una cosa che mi incuriosiva era: in un’epoca di saturazione digitale, come reagiscono i giovani di fronte ad un documentario del genere? Il linguaggio cinematografico può in qualche modo fare la differenza per la nuova generazione, essendo che siamo sempre più attaccati ad uno schermo, piuttosto che a un libro di storia classico?

Sì, in Argentina vediamo proprio questa evidenza. La storia raccontata nelle scuole ormai sta negando la verità dei 30.000 desaparecidos, proprio per le pressioni del governo, per la manipolazione dei contenuti. Invece, grazie agli spazi pubblici e politici, dove le associazioni per i diritti umani mantengono viva la memoria nelle storie dei desaparecidos e dei sopravvissuti, questa identificazione dei giovani con le generazioni passate riemerge.

Daniel, quando va in giro a raccontare la sua storia con un documentario, è ancora più impattante, perché lui ormai ha una capacità oratoria, ha una capacità anche di empatizzare con gli altri. La sua emozione è genuina, senza retorica politica, senza una costruzione del racconto. La genuinità e la verità sono fortissime.

Tanti giovani si emozionano e in qualche modo si domandano a loro volta cosa avrebbero fatto al posto di Daniel. Quella è la forza del suo racconto. In qualche modo è universale e riesce a coinvolgere tutti e tutte, spesso anche di diversa provenienza, proprio perché lui in realtà parla in modo molto diretto. Racconta anche in modo minuzioso la sua storia e riesce a far sì che quel suo modo di reinterpretare una storia che è stata negata diventi una nuova verità.

Ha davvero tantissimo impatto positivo negli incontri che fa. Tutti si avvicinano alla fine delle proiezioni ad abbracciarlo, a ringraziarlo, a congratularsi con lui. In qualche modo lui riesce a sanare quando proietta il film e racconta la sua storia in giro.

Al tempo stesso, è un modo di far vivere le persone che non ci sono più attraverso il documentario e permettere che la storia del negazionismo che sta avvenendo in Argentina non abbia spazio. C’è una verità nella storia di Daniel che nessuno può negare. Lui addirittura si è offerto di andare in spazi che non erano dei diritti umani o comunque con qualcuno che è rappresentante del partito del governo, La Libertad Avanza, perché lui non ha paura di affrontare direttamente questo negazionismo. Lui sa di essere parte dell’altra storia e vuole mostrarla attraverso la sua presenza.

È molto forte questa combinazione tra Daniel e il documentario. Ovviamente la presenza di Miguel, di mio padre, rafforza ancora di più tutta questa storia, perché al tempo stesso Daniel ci ha cercato, ma noi anche l’abbiamo cercato in tutti questi anni. La nostra famiglia era comunque molto riconosciuta nel movimento dei diritti umani.

È un po’ la vittoria collettiva. In Argentina, sia il ritrovamento di Daniel che tutto il periodo seguente sono stati vissuti come un esempio di vittoria, di conquista collettiva della memoria, della verità e della giustizia. Anche per strada spesso li fermano, li riconoscono, gli danno forza per andare avanti malgrado appunto il momento storico che stiamo vivendo. È stato anche riconosciuto pubblicamente il nome di Daniel e il fatto che fosse Nieto 133. Sicuramente è stato un elemento in più, qualcosa di positivo, dove comunque si è diffusa tanto la sua storia. Quando arriva lui con il documentario sono tutti molto emozionati e curiosi nel sapere i dettagli.

L’impatto emotivo su Florencia Santucho

Questo mi rende molto felice. Adesso mentre parlavi, stavi anche citando che ovviamente noi nel film vediamo come reagisce Daniel, ma anche come reagisce tutta la famiglia. Però nello specifico volevo, se non è troppo personale, domandarti come ti ha cambiato questo film. Nel senso, immagino che sia stato poi un viaggio. Prima di iniziare il film, emotivamente immagino sia stato differente rispetto ad adesso dove puoi rivederlo e a portarlo in sala. È stato un aiuto ad elaborare il dolore e anche la felicità di aver ritrovato Daniel? Come hai vissuto tutto questo processo?

Sì, è stato così intenso che non ho avuto molto tempo di pensare, perché sentivo, come dicevo, la necessità di andare avanti, di farlo, di concluderlo al meglio, sapendo che non avrei mai potuto in realtà coprire tutte le mancanze. Questo anche a me personalmente ha aiutato.

Io sono comunque un elemento; ho sempre sostenuto la mediazione tra la famiglia, la connessione delle storie, e quindi mi sentivo anche responsabile di dare un prodotto in cui potessero identificarsi tutti. Questo è ovviamente sempre difficile, ancor più nella nostra famiglia con tante storie che poi non si vedono effettivamente nel documentario e che avrebbero in qualche modo anche avuto un bisogno di uno spazio.

Però ho scelto di sostenere quello che era comunque la storia e di per sé l’equilibrio nella narrazione, grazie appunto a una visione esterna di Rodrigo che ha contribuito tantissimo anche nel dargli un quadro storico-politico. Quello dell’Argentina era già ovviamente stato visto e rivisto, la storia di Cuba, del movimento degli anni ’70. Invece, permettere di dare al prodotto anche un linguaggio accessibile per chi non conoscesse affatto la storia dell’Argentina è stata sicuramente anche lì una scelta importante. Era dare un ordine diverso un po’ ai fattori interni del film.

Riuscire finalmente a presentarlo a Roma, grazie al RIDF, è stato un traguardo, perché comunque anche lì in sala c’era mia madre, che ha un’altra storia ma parallela e funzionale a quella dei miei fratelli, c’era Elena D’Ambra, la nipote di Alicia. Sentire che questa storia tra l’Italia e l’Argentina non si conclude mai e c’è un flusso costante di memoria, di storia, di attivismo.

Era un po’ la mia necessità portare questa nostra storia, piccola, familiare, dall’Argentina nel mondo e nel mondo iniziando dall’Italia. Proprio perché noi abbiamo vissuto l’esilio in Italia e quindi sentivo l’importanza di anche ripartire un po’ da qui per creare poi di nuovo ponti con l’Argentina e con questo concetto di diritto all’identità.

Questo è il nostro obiettivo primario: sia per trovare i trecento nipoti che mancano, sia per aiutare a risollevare questo concetto che in Europa ultimamente non ha più questo stesso peso, che è il diritto all’identità di tutti e tutte. Partendo dai rifugiati, dagli immigrati, dalle persone che sono state private della propria storia di famiglia per guerre o per altro tipo di spostamenti.

C’è anche la valenza di avere un obiettivo, di essere parte di una campagna per il diritto all’identità, il film. E che possa continuare a circolare e a creare stimoli su questa riflessione è per me un grande orgoglio.

Florencia Santucho e i suoi progetti futuri

È  importantissimo mostrarlo a tutti, perché sicuramente è una cosa su cui tante persone effettivamente non hanno mai riflettuto,  sul diritto all’identità. Quindi trovo che sia molto importante. Ora che avete finito Identidad e lo state portando, speriamo sempre più in giro per il mondo. Come vedi il tuo futuro nel cinema? Vorresti in qualche modo anche far parlare una nuova voce, quindi magari un’altra voce tua o della tua famiglia, oppure vorresti concentrarti su un nuovo progetto, o per ora hai deciso di fermarti e di concentrarti proprio su portare Identidad in giro per il mondo?

È una bella domanda. Penso che sì, ovviamente portare Identidad in giro già di per sé è molto impegnativo. Proprio perché adesso siamo ancora nella fase dei festival, ma gli accordi per poter creare delle piattaforme di distribuzione e degli incontri è comunque per me una grande meta.

Voglio replicare il nostro festival di cinema e diritti umani che facciamo in Argentina qui a Roma e in qualche modo portare sia Identidad che tutte queste storie che hanno così tanta relazione con il diritto all’identità e sulla memoria. Poi farò un altro film, un altro film che possa parlare magari di storie invece diverse che non siano della mia famiglia e che possano comunque contribuire a questa idea di trasformazione sociale attraverso il cinema.

L’identità come diritto fondamentale

Io con le domande avrei concluso. Se vuoi aggiungere qualcosa dimmi pure, altrimenti ci fermiamo qui.

Sì, voglio appunto sottolineare questa idea del diritto all’identità, legandola alla differenza che c’è anche oggi tra l’idea di identità e di idiosincrasia tra l’Europa, l’Italia e quello che è invece vissuto in America Latina e forse Ibero-America.

Già nella definizione, quando si parla di identità, è una costrizione per l’Italia. Quando io ne parlo con gli studenti universitari e nelle scuole in cui sono andata, l’idea di identità è come un marco nel quale si nasce e in qualche modo ci si è condizionati. Per poterne cambiare, uno perde in qualche modo quell’identità. Se uno volesse essere altro dal marco di nascita, dovrebbe perdere quell’identità. E quindi è una costrizione. È qualcosa in cui cresciamo: l’identità culturale, tradizionale, il territorio.

Invece in America Latina l’identità è una conquista. Si percepisce come raggiungimento di una nuova visione di sé stessi, che spesso è legata all’identità dei popoli originari che sono stati sfollati, hanno perso la cultura della terra e invece la possono ritrovare. È legata anche all’identità degli afrodiscendenti, ma anche delle identità sessuali che possono liberarsi grazie ad un processo di emancipazione della propria identità.

Quindi, questa idea di diritto all’identità è un’identità che si deve liberare, si deve conquistare e raggiungere grazie alla consapevolezza del sé. Non è qualcosa che necessariamente è legato alla nostra storia biologica o alla nostra presenza in un territorio anziché un altro.

Secondo me questo è un aspetto molto importante. Appunto, oggi vediamo che ci sono rifugiati che arrivano da altre terre in guerra. Per avere la cittadinanza europea in realtà devono perdere in qualche modo la loro origine. Anche la loro storia, la loro appartenenza, le verità del perché sono dovuti scappare da quel territorio, perché hanno perso una famiglia. Invece di rafforzare la ricostruzione del nostro passato, spesso tendiamo a perderlo e a ricollocarci. Perdere la nostra radice non porta a maggior forza nella crescita individuale e collettiva, ma in una decostruzione degli elementi di storia che invece possono permetterci di rafforzare la nostra coscienza di noi stessi e degli altri.

Spero che in gran parte anche Identidad possa contribuire ad una visione di un’identità come una conquista. Rafforzando la nostra storia e conoscenza del passato e al tempo stesso proiettandoci sul presente, su come vogliamo vivere e continuare ad avanzare.