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Rome International Documentary Festival

I registi raccontano ‘I diari della felicità’

Un percorso creativo nelle scuole salentine diventa un documentario dallo sguardo autentico. Presente al RIDF 2025.

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cinema documentario

Al Rome International Documentary Film 2025, festival dedicato alla valorizzazione del cinema documentario indipendente, arriva I Diari della Felicità, un progetto corale che unisce tre registi (Claudia Mollese, Davide Barletti, Renato Chiocca) in un percorso creativo unico. Attraverso diari cartacei e piccole telecamere affidate agli adolescenti, il film esplora l’intimità, la crescita e la libertà espressiva dei ragazzi, offrendo uno sguardo autentico su una generazione in trasformazione e sul potere del racconto documentaristico.

Per l’occasione, abbiamo incontrato i registi per farci raccontare come il lavoro sia cresciuto dal diario cartaceo alle piccole telecamere affidate agli adolescenti, strumenti con cui hanno esplorato intimità, emozioni e libertà espressiva. Il risultato è uno sguardo autentico su una generazione in trasformazione e sul potere del documentario di raccontare storie che spesso restano invisibili.

Intervista a Claudia Mollese e Davide Barletti

Che cosa vi ha ispirato a intraprendere questo progetto? Qual è stata la sua principale fonte di ispirazione?

Claudia Mollese: Siamo partiti da un contesto preciso: il corso dedicato ai bambini all’interno dei progetti CIPS, cioè Cinema e Immagini per la Scuola. Due anni fa avevamo già lavorato con l’Istituto comprensivo di Calimera–Caprarica–Martignano a un altro progetto, e questo nuovo film si inserisce proprio nella stessa cornice. Da qui nasce il punto di partenza, almeno come struttura generale. Rispetto invece al tema – l’esplorazione sentimentale – l’ispirazione principale è stata l’ascolto. Ci siamo chiesti: cosa significa mettersi davvero in ascolto di ragazzi e ragazze di 12-13 anni? Quale dispositivo possiamo costruire in un progetto che parla di educazione all’immagine? Sapevamo di avere una continuità con il lavoro precedente e con le ricerche che sia Davide, sia io avevamo portato avanti separatamente: io, ad esempio, avevo lavorato a Marsiglia su un progetto in cui si passava la videocamera ai ragazzi. Tutto questo ha alimentato l’idea.

Davide Barletti: I diari della felicità nasce prima di tutto dalla creazione di un diario cartaceo: Il diario di bordo della mia vita sottosopra. Lo abbiamo realizzato con il contributo degli insegnanti – tra cui Margherita Macrì, che è docente ma anche editor e pedagogista – e dell’illustratrice Chiara Rescio.

In questo diario invitavamo ragazzi e ragazze a scrivere liberamente, anche in maniera anarchica, riflettendo su un viaggio verso la “felicità”: un concetto sfuggente, diverso per tutti, e ancora più complesso per un preadolescente. Alla fine del laboratorio di scrittura è iniziata una seconda fase. Qui abbiamo lavorato con circa cento diari prodotti dagli studenti di seconda media, provenienti da una realtà periferica ma molto viva del Salento, nella Grecia Salentina, tra Calimera, Caprarica e Martignano. A quel punto abbiamo introdotto le piccole videocamere – strumenti con cui avevamo già lavorato in altri progetti  come naturale prosecuzione del diario, ma in forma visiva.

L’obiettivo era lasciarli completamente liberi di esprimersi e di raccontarsi, senza la mediazione dell’adulto. Non si trattava di consegnare le camere e rivedersi mesi dopo: il percorso era condiviso, ma le immagini nascevano interamente da loro. Hanno filmato senza la nostra presenza, nella loro intimità quotidiana: nelle camere da letto, nelle cucine delle loro case, nei campi di papaveri, per strada, tra amici. Da questo lavoro è nato un vero e proprio affresco, in cui la figura dell’adulto si sposta sullo sfondo per lasciare spazio pieno ai loro sguardi, ai loro mondi e alle loro voci.

È molto particolare l’idea di iniziare con il diario e non con la videocamera. È stato un modo per dare più spazio ai ragazzi e metterli a loro agio?

C. M.: Per noi questo percorso è stato innanzitutto un modo per incontrarci davvero. La possibilità, per i ragazzi, di scrivere e comunicare con noi attraverso il diario ha reso possibile la costruzione di una relazione. La fase dei laboratori di scrittura è durata circa due mesi: un tempo prezioso per capire che tipo di rapporto si stava creando, come si costruisce la fiducia, come ci si conosce reciprocamente, quali limiti è giusto porsi e quanto ci si può spingere oltre. Quando parlo di “relazione”, intendo proprio la dimensione centrale del fare cinema e documentario: tutto si fonda su questo.

Il percorso di scrittura – fatto di parole, disegni, simboli  e i momenti condivisi in classe, in cui rileggevamo insieme i materiali, ci hanno permesso di conoscere davvero ragazze e ragazzi, e di capire in quale direzione volessimo portare il film. Per loro, questo lavoro è diventato un’esplorazione che abbiamo chiamato “le isole”: l’isola della casa, l’isola della scuola, l’isola dell’amicizia, dei sogni, della felicità. Attraversarle significava per noi entrare nei loro universi, nei loro mondi interiori. Prima ancora di decidere cosa raccontare nel film e quali tracce lasciare, era fondamentale costruire una relazione aperta, libera, capace di accogliere. La scrittura è stata portata avanti con tutti gli studenti delle seconde medie.

Questo ci ha permesso anche di capire chi desiderasse davvero mettersi in gioco nella fase successiva, quella del laboratorio pomeridiano. La prima parte del lavoro avveniva durante le ore scolastiche; il laboratorio pomeridiano, invece, è durato quattro mesi e si basava sulla partecipazione volontaria. Ogni settimana i ragazzi venivano spontaneamente: anche questo è stato un modo per farli entrare nel progetto, conoscere la nostra visione e scegliere consapevolmente se farne parte.

Questi sono ragazzi di seconda media, immersi nel mondo dei social. Com’è stato il passaggio da quel linguaggio a un percorso più intimo?

D. B: È stata una delle sfide principali del progetto, perché i ragazzi arrivano da un immaginario segnato dai social: un modo preciso di porsi davanti alla camera, di raccontarsi come in un vlog o in un TikTok. Uno degli obiettivi del laboratorio è stato proprio quello di spiegare loro che volevamo allontanarci da quel linguaggio per esplorarne uno nuovo.

La domanda centrale, per noi, è sempre stata: dov’è il confine tra educazione ed esplorazione? Educare significa trasmettere, ma può anche diventare verticale e impositivo. Per questo abbiamo cercato di guidarli senza imporre nulla, proponendo un cambiamento graduale. Pensavamo sarebbe stato difficile, invece si sono lasciati andare con naturalezza: hanno capito presto che non ci interessava replicare i codici dei social. Il telefono, comunque, resta un dispositivo fondamentale nelle loro vite — per la musica, per i compiti, per parlare tra loro — e questo si riflette anche nel film, dove la musica ha un ruolo importante.

La lunga durata del progetto è stata decisiva. Il laboratorio pomeridiano era interamente dedicato a riguardare insieme ciò che avevano girato. Le prime immagini erano tipiche dei social, ma proprio da lì è nata la parte più creativa: la ricerca di un linguaggio comune attraverso piccoli dispositivi leggeri, simili a un cellulare ma diversi, quasi dei “robottini”. Erano un territorio neutro, un punto di incontro. Guardando insieme le riprese, abbiamo scoperto come ognuno costruisca spontaneamente una propria grammatica visiva: libera, istintiva, anche irregolare. Abbiamo imparato a valorizzare gli errori e a trasformare le imperfezioni in elementi narrativi. Questa è stata, in fondo, la vera sfida: accettare un linguaggio non convenzionale e costruire insieme la nostra grammatica. Dopo anni di lavoro con gli adolescenti, ho capito che non esiste davvero nulla di “sbagliato”: tutto può diventare racconto, se guardato con attenzione e rispetto.

Avevate aspettative precise sui ragazzi o siete arrivati senza preconcetti?

C. M: Siamo arrivati molto liberi. In progetti come questo le variabili sono tantissime. Avevamo il desiderio di fare un film corale, di accompagnare le loro immagini verso una forma possibile. I ragazzi sono stati generosi, presenti, coraggiosi: le aspettative sono state superate. Credo che ciò che ha davvero fatto la differenza sia stato il clima di accoglienza che abbiamo trovato all’interno della scuola, sia da parte degli insegnanti che delle famiglie. E noi, dal canto nostro, ci siamo dedicati con grande serietà e presenza. Non è la prima volta che lavoro con ragazzi e ragazze, e ogni volta constato che quando l’adulto si mette davvero in gioco, in ascolto, automaticamente anche loro fanno lo stesso. Si è creata un’energia reciproca, un desiderio condiviso di portare avanti il progetto.

Non si è instaurata quella dinamica di distanza tra adulti e studenti che a volte può emergere: al contrario, c’è stato un movimento comune. A un certo punto l’aspettativa di tutti – e soprattutto la loro –  era capire che tipo di film stessimo costruendo insieme. Era un’attesa condivisa, frutto proprio di quella relazione che si era creata.

D. B.: Il lavoro di montaggio, curato da Mattia Soranzo, è stato particolarmente significativo. A differenza dei progetti precedenti, in cui partecipava attivamente anche alla fase di laboratorio, questa volta Mattia ha scelto consapevolmente di non prendere parte al percorso iniziale. Ha preferito arrivare al montaggio con uno sguardo “vergine”, libero da qualsiasi condizionamento o immagine pregressa, per confrontarsi direttamente con il materiale grezzo prodotto dai ragazzi. Il montaggio è stato quindi il momento in cui tutto ciò che era stato raccolto ha iniziato a prendere forma. Una forma volutamente aperta: il film non segue una storia lineare né una drammaturgia rigida. Anzi, la sua forza sta proprio in questa libertà, nel suo essere un osservatorio spontaneo e sensibile su una fascia d’età che raramente viene raccontata con profondità – quella dei dodicenni.

È un’età di transizione in cui non si è più bambini, ma non si è ancora adolescenti. Un’età in cui gli ormoni cominciano a muoversi, l’identità è ancora fluida e indefinita, e perfino la felicità appare come qualcosa di sfuggente, in trasformazione. Il film cattura tutto questo, restituendone la complessità senza incasellarla in schemi narrativi predefiniti.

Com’è avvenuta la coordinazione tra voi registi?

C. M.: Il lavoro è stato seguito da noi due e dal regista Renato Chiocca. Abbiamo condiviso tutte le fasi, con una grande collaborazione da parte della scuola.

D. B.: Progetti come questo funzionano quando c’è ascolto reciproco tra docenti, famiglie e chi arriva dall’esterno. La fase di scrittura, pur non entrando letteralmente nel film, è stata un mezzo fondamentale per conoscerci.
E, come dicevamo, l’energia del progetto è nata anche dal fatto che quando gli adulti si mettono veramente in gioco, i ragazzi lo percepiscono e rispondono allo stesso modo.

C’è qualcosa che volete aggiungere?

Ci teniamo a dire che spesso si parla di una generazione immersa nei social, poco responsabile. In realtà abbiamo incontrato ragazzi con un grande senso di responsabilità: chi si occupa dei fratelli piccoli, chi segue la famiglia, chi si prende cura degli animali. Viviamo in un mondo complesso, ma loro ci sono, presenti e attenti. Ed è stato emozionante vederlo così da vicino.

 

I diari della felicità