In uscita evento il 10, 11 e 12 novembre, Piero Pelù Rumore dentro di Francesco Fei è stato proiettato come evento speciale all’interno della sezione Let the Music Play al Festival dei Popoli 2025. Non un semplice biopic, non un film sull’artista per i fan, ma un vero e proprio film per far conoscere l’uomo Piero Pelù. Un’occasione speciale che sarà possibile cogliere sul grande schermo grazie alla distribuzione di Nexo Studios. Il film è prodotto da Apnea Film, Nexo Studios e DNA Audiovisivi, realizzato grazie a TEG, con il contributo del PR FESR Toscana 2021-2027 e la collaborazione di Fabbrica Europa e arriva in sala dopo la partecipazione anche alla Mostra del cinema di Venezia.
Nella cornice del Festival dei Popoli abbiamo fatto alcune domande al regista Francesco Fei che ha raccontato il suo Piero Pelù. Rumore dentro.
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Francesco Fei e il suo Piero Pelù. Rumore dentro
D’impatto l’inizio del film con la voce fuori campo di Pelù che dice Quello che state per vedere non è un documentario. Ed effettivamente quello che vediamo non sembra essere un documentario. Mi ricordo che anche il tuo lungometraggio Mi chiedo quando ti mancherò aveva delle contaminazioni particolari tanto da non poterlo annoverare in un unico genere. Allo stesso modo questo si rifà al documentario, ma anche dal punto di vista della struttura narrativa non sembra esserlo: per certi aspetti sembra una storia di fantasia con un protagonista che a un certo punto ha un ostacolo da superare per raggiungere il lieto fine, dall’altra parte non segue un vero e proprio percorso perché non mostra e non racconta la vita di Pelù, ma un momento e un evento particolare.
La struttura è drammaturgicamente cinematografica, nel senso che abbiamo un personaggio che inizia con una problematica che risolve, poi in tutto il secondo atto la svolge e nel terzo crea di nuovo un problema inaspettato che, a sua volta, viene risolto. Alla fine, anche quando fai i documentari, per quanto tu ti possa attenere a un approccio realistico e osservativo, devi comunque cercare, come regista, una struttura drammaturgica, che a differenza di quella nel cinema di finzione, che è scritta già in una sceneggiatura, questa la devi andare a creare negli episodi della vita che accadono mentre lo giri.
Per esempio inizialmente il film era concepito con il viaggio al centro e all’interno intramezzi dei vari episodi durante il periodo delle riprese. Non era, però, previsto che Piero avesse di nuovo una crisi di acufene, quindi non era previsto quel terzo atto. E questo ha fatto sì che ci fosse proprio uno svolgimento cinematografico.
Hai parlato di Mi chiedo quando ti mancherò, ma a me verrebbe in mente più il documentario che avevo fatto quando ho vinto il Festival dei Popoli nel 2018, La Regina di Casetta. Anche lì avevamo l’osservazione di un anno di vita di una ragazzina e, per quanto fosse osservativo, anche lì avevamo costruito una drammaturgia a tre atti, partendo dal primo giorno di scuola di un anno (che era l’ultimo che lei avrebbe vissuto in quel paese), per poi arrivare nel terzo atto a capire cosa sarebbe successo dopo l’abbandono del paese. Perciò sono dell’idea che un documentario di osservazione debba cercare di essere onesto con lo spettatore nelle cose che racconta, ma ci deve comunque essere sempre la voglia, la volontà di costruire una struttura drammaturgica, che, a differenza del film di finzione, è solo abbozzata a priori: la vera struttura drammaturgica poi è la vita. Questa possibilità avviene anche perché ho un approccio produttivo molto particolare, nel senso che, facendo tutto da solo o quasi (a volte con un secondo operatore, è chiaro che riesco a dilatare a mia misura e a mio gusto le riprese, cioè non sono legato alle settimane di shooting prestabilite. Chiaramente devi comunque avere a che fare col soggetto e, nel caso specifico, io con Piero ho convissuto quasi un anno e questo ti permette di avanzare nella storia con l’avanzare della vita. Ed è la bellezza del documentario perché diventano anche esperienze, oltre che professionali, anche umane.

Quasi cinema di finzione
Quello che racconti nel film, infatti, va oltre il documentario. C’è anche tanto cinema di finzione. Mi viene in mente in questo senso, per esempio, la presentazione di Piero all’inizio con una maschera che ne nasconde un’altra, come una sorta di riassunto di quello che vedremo. Ma anche le contrapposizioni tra silenzio, rumore e musica.
Sì, il documentario, oggi più che mai, è una forma cinematografica a tutti gli effetti, anche a livello drammaturgico, e chiaramente la sensibilità di chi lo fa porta, nel mio caso, ad andare a realizzare un qualcosa che abbia una dimensione, appunto, cinematografica. Nel caso delle maschere, per esempio, tutto è nato da un’idea di Piero, che io ho colto al volo e ho detto che l’avrei messa all’inizio. Perché in un film in cui racconti un dolore, una problematica, iniziare con una festa dà un mood giusto dal punto di vista cinematografico. E poi io nasco come regista cinematografico, nel senso che sono arrivato a fare i documentari con grande soddisfazione, ma portandomi dietro l’esperienza e la passione per il racconto cinematografico. Per questo cerco di fare in modo che gli episodi veri, reali della vita diventino struttura drammaturgica di stampo cinematografico.
E per questo stesso motivo abbiamo intenzionalmente rinunciato all’intervista, perché sono dell’idea che, nel momento in cui arriva, va a rompere quell’incanto e quel tipo di immersività che lo spettatore ha quando vede un racconto drammaturgicamente cinematografico. Quegli incontri che potevano avere le sembianze di interviste che ci sono all’interno del film, abbiamo cercato di contestualizzarli con una struttura che fosse cinematografica.
Alla fine l’idea che si ha è quella di un racconto che è quasi di un diario.
Penso che funzioni perché secondo me il mercato è saturo di operazioni biografiche, biopic celebrativi degli artisti dove ci sono lunghe sequenze di interviste, dove tutti indicano quanto era bravo/a e va bene anche questa versione. Per quanto mi riguarda, però, se ho a che fare con una persona in vita e che è disposta a mettersi in discussione, a quel punto diventa veramente stimolante provare a fare quel tipo di racconto.
E questo penso sia possibile anche grazie al personaggio stesso, come nel caso di Piero che si mette costantemente in gioco.
È un grande vantaggio di questo tipo di lavori che, rispetto magari a quelli dove al centro c’è una persona che trovi per strada, nel senso che non è conosciuta, e che non sai come può reagire, hai comunque di fronte una persona che sa stare davanti alla macchina da presa, e lo fa in maniera intelligente. Perché è se stesso, come un attore.
Chiaramente il Piero che ho incontrato ai tempi di Regina di Cuori per la quale ho realizzato i videoclip era un Piero Pelù nel pieno del suo successo e probabilmente anche con un ego e un mondo intorno per cui sarebbe stato più difficile mettersi in gioco. In questo momento più introspettivo della sua carriera professionale, ma anche di quella umana, è chiaro che diminuisce l’apparato rockstar e viene fuori l’uomo.
Il paesaggio
Volevo chiederti qualcosa del paesaggio. Ho trovato molto poetica la scena in cui lui si arrampica, si sdraia in riva al mare e va a fondersi con la natura circostante. Sembra voler lanciare un messaggio universale che va oltre l’acufene. E rimanendo nell’ambito del paesaggio anche la scena, verso la fine, della sabbia e del vento che soffia e che sembra quella di un orecchio (il suo orecchio) che sente perennemente un fischio. In questo modo sembri metterci nella sua stessa situazione.
Tutto il film è frutto di una continua collaborazione sotto tutti i punti di vista. Nel momento in cui ti approcci al documentario, che anche se, come in questo caso, è più un racconto umano, compi delle scelte formali ben precise per far sì che il racconto sia il più cinematografico possibile. Io credo in un cinema fatto di luoghi, suoni, silenzi, pause.
Quando vado a fare un documentario dove non ho l’imposizione delle interviste è chiaro che spingo in quella direzione. Cerco di portare in collaborazione all’artista l’uomo da raccontare in contesti in cui il racconto non si sviluppi solo attraverso le parole, ma attraverso anche il modo in cui lui si relaziona e percepisce l’ambiente circostante, che diventa a tutti gli effetti un elemento narrativo.
Con Piero è stata una vera e propria sfida molto più complicata, sulla carta, perché comunque Piero è una rock star che si porta dietro un vissuto. Alla fine, grazie a una buona collaborazione, lui si è messo in gioco facendo fare un passo indietro alla rock star e facendo fare un passo avanti all’uomo.

Francesco Fei e la musica in Piero Pelù. Rumore dentro
Non posso non chiederti della musica perché forse, considerando il soggetto, sarebbe stato più semplice fare un film sul suo mondo di musica. Invece inserisci musica solo in alcuni momenti precisi, quasi come se fosse una sua liberazione.
Infatti in realtà in questo film c’è poca musica. Noi siamo contenti che esca come evento, in 150 sale, però, per sua natura e per sua struttura, questo è più un film classico, che probabilmente avrebbe anche bisogno di un passaparola perché non è l’ennesimo biopic dedicato ai fan dell’artista. È un film che racconta un essere umano che fa un lavoro (artistico) che, però, a un certo punto ha un incidente che gli crea un problema: ed è una struttura drammaturgica e cinematografica e il racconto diventa universale. Che poi lui faccia il musicista è importante, ma fino a un certo punto.
Di musica ce n’è effettivamente poca, però, per esempio, uno dei momenti che amo di più del film è quello quando Piero va a Emergency e canta Il mio nome è mai più davanti a 15 persone, ma ci mette tutta l’anima, dandosi completamente. Ecco, secondo me, quello non è solo un momento musicale, ma è un momento umano per il contesto in cui avviene.
La scommessa, con questo film, è proprio questa. Quello che abbiamo realizzato, per sua natura, rischia di essere confinato nel classico biopic dell’artista dedicato ai fan. Invece non è così.
È un caso isolato e unico rispetto agli altri documentari musicali.
Diciamo che abbiamo fatto un prodotto atipico, molto stimolante. Credo che un film così possa essere apprezzato anche da chi non lo segue o non è interessato alla musica perché trova la storia di un essere umano, di un uomo, di fronte a un problema che può capitare a chiunque.
Tante riflessioni universali
Oltre a quello che abbiamo detto, il film è particolare anche perché comunque contiene delle riflessioni più grandi, ampie e universali. Ridendo e scherzando viene fatto anche riferimento alla guerra e al fatto che apparentemente questo possa essere o apparire come un documentario leggero e frivolo, ma in realtà è molto di più.
Quello è merito chiaramente anche dello spessore della persona ritratta. Piero nella voce fuoricampo ha saputo condensare i temi e gli argomenti a lui cari senza per questo diventare pedante; è riuscito a tenere un certo tono e non era facile.
In questo film finalmente capisci che quello che ha fatto anche nella sua carriera in passato l’ha sempre fatto perché gli veniva dal cuore. E anche per questo ci siamo davvero trovati bene.
Quando ci siamo sentiti lui aveva già chiaro che approccio voleva per il film, io mi stavo ritagliando la mia libertà espressiva e quindi abbiamo trovato un accordo: lui scriveva e io dirigevo. Anche se poi alla fine c’è stata una collaborazione, almeno in questo modo erano chiari i ruoli. Al montaggio abbiamo lavorato circa due mesi, ma avevamo già una struttura definita e ci siamo fidati l’uno dell’altro.
Noi ci auguriamo che arrivi a più persone possibili. Il nostro obiettivo è quello di cercare di comunicare il fatto che non sta uscendo l’ennesimo biopic.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli
Per l’intervista e le foto si ringrazia Davide Ficarola, Valentina Messina e Antonio Pirozzi, ufficio stampa del Festival dei Popoli