Presentato in concorso all’VIII edizione dell’Euro Balkan Film Festival, La rinuncia del principe di Ivan Salatic (titolo inglese: Wondrous is the Silence of Master), una produzione internazionale che ha coinvolto anche l’Italia (con Rai Cinema), scolpisce la statura e le debolezze di un ex combattente contro i turchi ottomani, affetto dalla tubercolosi, affaticato e ingrigito; un poeta e pensatore accartocciato nei suoi umori melanconici, in cerca di guarigione e in una fuga tutta interiore a Napoli e nell’Italia meridionale, tra i bagliori decadenti dei fasti borbonici. Una seconda prova nel lungometraggio da parte del regista montenegrino (con natali croati), dopo You Have the Night (alla Settimana della critica 2018), che intarsia con echi squisitamente euro-orientali l’evanescenza di un mondo antico, ma sullo schermo fornisce anche materia a un sentimento stridente e al contempo austero, quello dell’inadeguatezza (del potente), che sconfina però nella saggezza della coscienza, non nella sua disfatta.
L’enigma dell’autorità
“Ambientato nel diciannovesimo secolo, l’incipit fa riferimento, come fonte del film, ad una serie di misteriosi testi attribuiti a Djuka, un servo del “padrone”, uno dei signori a capo delle comunità montane del Montenegro che mantennero l’indipendenza dall’Impero Ottomano. Attraverso un viaggio del “padrone” e di Djuka in Italia, il film di Igor Salatic medita sulla figura del sovrano, a cui i suoi sudditi attribuiscono un connotato quasi mistico”.
‘Sventurata la terra che ha bisogno di eroi’, sentenziava Bertolt Brecht. E l’anelito famelico all’eroismo aleggia nella corte errante del protagonista, nell’ottuso servo Djuka e negli uomini che come lui ripongono una fede messianica, più accecante che amorevole, nel loro mentore, che tuttavia ribatte alla notizia delle invasioni del Pascià:
Solo gli onesti e i matti si preoccupano.
In una sospensione delle cadenze del tempo pur imbevuto di Storia (in cui si tenta di carpire un soffio di eterno ritorno tra oppressi e oppositori ma anche di cristallizzare una beltà d’animo perduta), che Ivan Salatic tesse con pacatezza di ritmo, contemplazione dei piani e ampiezza di sguardo, La rinuncia del principe interpella anche il nostro presente, oltre le coltri, qui mai facilmente pittoresche, di un primo Ottocento attraversato da risorgimentali ma aggrovigliati impulsi di libertà e da patriottico spleen.
Nell’eco non lontana di un’attualità geopolitica in cui le giovani generazioni serbe europeiste manifestano contro malgoverno e corruzione, la lezione del principe, estranea a un’espressione di oblomovismo, schiude una visione politica avulsa da romanticismi d’accatto, ma stoica, solenne, umanissima. Perché dietro lo schermo della rinuncia del leader, ispirato alla figura del principe-vescovo e letterato del Montenegro Petar II Petrović Njegoš (1813-1851), si filtra la condanna a ogni falsa epopea nazionalistica, accecata solo da furori individualistici.
La tesa quiete della lotta
Costruito con padronanza spaziale su direttrici opposte, tra interni ed esterni e tra terra d’esilio e madrepatria, La rinuncia del principe, pur nella sua estetica languida dalle tonalità ora ombrose ora elegantemente smorzate che fanno sognare lo sguardo come di fronte a un gioiello in opale, non sempre riesce a preservare un’empatica coincidenza con il protagonista, soprattutto nella fissità delle sequenze; si staglia tuttavia per l’espressione di un raro, complesso e sfuggente sentimento civile (che può trovare eguali nel nostro cinema con Habemus Papam di Nanni Moretti), per la rievocazione astratta, impalpabile, ma autentica di un’epoca che fu e che continua a esistere negli spettri del presente.