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La visione di Chiara Barbo per La Cappella Underground

Trieste e la fantascienza: un legame che dura da più di mezzo secolo.

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A Trieste, il futuro del cinema passa per La Cappella Underground. Nata come galleria d’arte negli anni Sessanta, è oggi un centro di riferimento per la cultura audiovisiva e per la promozione del cinema di genere. Da questo spazio, diventato laboratorio di idee e di memoria, nasce anche il Trieste Science+Fiction Festival, erede del primo festival di fantascienza al mondo. Chiara Barbo, presidentessa dell’associazione, coordina le attività del La Cappella e della Mediateca di Trieste. Con lei abbiamo parlato del valore degli archivi, delle nuove sfide del festival, del rapporto tra fantascienza e realtà, e di come l’immaginario possa ancora essere una forma di resistenza culturale.

Cappella Underground: dalla galleria d’arte al cinema

La Cappella Underground nasce inizialmente come galleria d’arte. Qual è stato l’evento o la persona chiave che ha innescato la transizione definitiva verso il primato del cinema?

Allora, non credo ci sia stato un evento in particolare. Però, pochi mesi dopo la nascita de La Cappella come spazio espositivo molto legato all’arte, è nata l’idea che fare arte, mostrare arte fosse, da una parte, innovativo e all’avanguardia, dall’altra un intervento sociale, un intervento nella città, nella società. Molto presto il gruppo di persone, che erano artisti ma anche cinefili, persone che venivano dal mondo della cultura, docenti, professionisti, si resero conto che il linguaggio artistico più innovativo e interessante in quel momento – parliamo del 1968 – era indubbiamente il cinema.

E quindi pochi mesi dopo l’apertura dello spazio espositivo,  nel febbraio del 1968, decisero di creare una sezione con uno statuto separato che si occupasse esclusivamente di cinema. Quindi è stata più un’esigenza, un desiderio legato proprio a quello che l’arte e il cinema erano in quegli anni: avanguardia, sperimentazione e intervento sociale.

Un patrimonio che non smette di evolversi

Trieste ha una lunga tradizione legata alla fantascienza. Prima dell’attuale Science+Fiction Festival, c’erano già esperienze importanti in città legate al genere, giusto? Prima del Science Fiction Film Festival Trieste ospitava il Fanta Festival, corretto?

Allora, no, non è corretto. Ti spiego cos’è. Dunque, il Fanta Festival era a Roma. Quello che c’era a Trieste era nato nel 1963 ed è proseguito fino al 1982, su iniziativa di quella che all’epoca era l’Azienda di soggiorno. Una sorta di azienda di promozione turistica della città, molto lungimirante perché aveva capito – e siamo negli anni ’60, in piena Guerra Fredda – che la fantascienza era il linguaggio, la forma espressiva del momento – tanto nella letteratura quanto nel cinema–  più interessante da esplorare e far conoscere. E quindi aveva istituito a Trieste, mettendo insieme un gruppo di esperti di fantascienza e di cinema, quello che era chiamato “il Festival del film di fantascienza”. Ed era il più grande, probabilmente il primo festival di film di fantascienza al mondo. Tant’è vero che per anni ci sono stati ospiti importantissimi da tutto il mondo che venivano a Trieste.

Purtroppo, nei primi anni ’80 è terminato, e allora La Cappella Underground, nel 2000, ha deciso di riprenderlo – visto che era un patrimonio così prezioso – e rilanciarlo con il nome di Trieste Science+Fiction Festival. In questo modo unendo la fantascienza, che nel frattempo era cambiata insieme al mondo e al cinema, al mondo della scienza, che a Trieste è molto importante perché ci sono le più importanti istituzioni scientifiche internazionali. E così è nato, 25 anni fa, il Trieste Science+Fiction Festival.

Il futuro dell’archivio

Essendo un’attività che va avanti da così tanti anni, considerando l’immenso e prezioso archivio che custodite, qual è la sfida maggiore nell’affrontare questa conservazione?

Allora, considera che noi, come La Cappella Underground, abbiamo un archivio di film che non sono solo di fantascienza. Rappresentano un po’ tutta la storia del cinema. Abbiamo sia film fruibili da tutti negli spazi della Mediateca di Trieste – una delle attività che gestiamo – sia un archivio di oggetti, vecchi poster, locandine, manifesti.

Per quanto riguarda i film di fantascienza di questi ultimi 25 anni, abbiamo poco, perché ovviamente i film li presentiamo al festival ma non li conserviamo, essendo di proprietà delle distribuzioni, dei sales o delle produzioni che ce li concedono. Sul Festival il discorso è da dividere: ci sono materiali provenienti dal festival antico, che però non era gestito da Cappella, quindi alcune cose sono rimaste. Altre credo siano ancora in possesso delle persone che avevano lavorato o organizzato il Festival in quegli anni.

Per quanto riguarda tutti gli altri film, c’è un problema economico e organizzativo nel digitalizzare tutto, perché noi i film li abbiamo ancora in DVD. Conserviamo qualcosina in pellicola, ma davvero poche cose: abbiamo preferito negli anni darli a chi poteva conservarli o restaurarli, come la Cineteca del Friuli o singoli collezionisti.

Trieste science+fiction festival - Francesco Ruzzier

Il genere fantascientifico oggi

Ritornando al cinema di fantascienza, soprattutto a quello italiano che ha una storia discontinua: qual è l’obiettivo strategico del Festival oggi nel sostenere e promuovere le nuove produzioni italiane di genere?

Attraverso il Festival e gli appuntamenti durante l’anno, uno degli obiettivi è proprio quello di  promuovere il cinema di genere. Il tutto attraverso uno spazio dedicato al cinema italiano, sia di finzione che – nei rari casi – documentario, sia corti che lunghi. Il genere, e in particolare la fantascienza, sono un modo meraviglioso per raccontare la realtà, per ipotizzare il futuro e farlo con un linguaggio accessibile a tutti, che è anche intrattenimento. Dedichiamo spazio a proiezioni, incontri con autori e masterclass. Ogni anno invitiamo al festival 40 studenti di università italiane di cinema, per partecipare ai workshop, alle masterclass e vedere i film.

Devo dirti che quest’anno, per la prima volta, non abbiamo uno “Spazio Italia”, solitamente dedicato alle produzioni più interessanti e innovative del giovane cinema italiano, perché c’è stata poca produzione. Pochissima produzione, direi di fantascienza. Non tutti gli anni sono uguali, e quest’anno la qualità dei film proposti era un po’ più fragile. Perciò non abbiamo uno “Spazio Italia”, anche se ci sono film italiani in altre sezioni o competizioni. Questo riflette una tendenza generale: è stato un anno debole per la fantascienza, lo si è visto anche nei grandi festival e mercati internazionali.

Ne parlavamo proprio ieri, sia con il direttore del festival, Alan Jones, che con altri collaboratori: soprattutto in Italia (ma probabilmente anche altrove), viviamo in un momento in cui la realtà sta andando talmente oltre, e così velocemente, rispetto ad alcuni scenari che fino a pochi anni fa si ipotizzavano. Sia dal punto di vista tecnologico che politico e sociale, che è quasi overwhelming anche per chi fa fantascienza. Ci siamo chiesti se questo ne sia il motivo. Anche chi si occupa di storia orale o contemporanea si pone la stessa domanda. È uno di quei momenti in cui succede talmente tanto che lo spazio per la creazione fantascientifica si riduce.

Educare allo sguardo del domani

Avete anche iniziative o progetti collaterali – laboratori, corsi – che ritiene abbiano ancora un potenziale formativo inesplorato, che vorreste sviluppare nei prossimi anni?

Sicuramente. Ce ne sono tanti. Da una parte ci sono laboratori che già facciamo per bambini, sull’animazione e lo stop motion, che andrebbero potenziati e sviluppati. Le frontiere sono infinite, serve solo avere le risorse per organizzarli. Poi c’è tutta la parte dedicata al videogioco, grazie alla collaborazione con IVIPRO DAYS durante il festival: giornate con i maggiori esperti e creatori di videogame in Italia e non solo. Sono incontri dedicati al videogioco anche come racconto del territorio, cosa per noi molto interessante. Sempre più spesso Film Commission, assessorati alla cultura e aziende di turismo usano il videogioco per raccontare città, paesi, borghi e luoghi naturali — ed è affascinante. Dedichiamo grande spazio durante il festival, ma probabilmente andrebbe ripreso anche durante l’anno.

Sia il pubblico di questi panel sia gli stessi creatori sono molto giovani: hanno una prospettiva che noi, che non siamo più così giovani, non abbiamo. È proprio un altro linguaggio, un altro approccio, sia alla creazione che alla realtà. Poi c’è tutto il discorso sull’intelligenza artificiale, con tutti i dubbi e le considerazioni del caso. Ma che va assolutamente conosciuta e utilizzata al meglio, senza paura, integrandola nel processo creativo e produttivo dell’audiovisivo. In parte è già così, ma ci sono grandi differenze tra Paese e Paese, un grande gap generazionale, molte resistenze culturali e politiche. Su questo va fatto un lavoro profondo e quotidiano. Anche il festival dedica spazio all’AI, ma dovremmo fare di più.