In occasione dell’anteprima regionale del documentario Ci sedevamo sul tappo – scritto e diretto da Anna Testa e in concorso al Festival Mente Locale 2025 – la regista racconta come è nato il film, attraverso un invito a scoprire “la poesia e le contraddizioni che rendono il borgo [Porto Rotondo] autentico e umano”.
Negli anni ’60 i fratelli Nicolò e Luigino Donà dalle Rose scoprono in Sardegna la baia di Poltu Ridundu, acquistano terreni dalle famiglie locali e la trasformano nella futura meta turistica Porto Rotondo.
Cosa l’ha spinta a raccontare la storia di Porto Rotondo?
Porto Rotondo è un luogo che ha sempre affascinato per il suo essere al contempo reale e immaginario. Ho voluto raccontare non solo le sue architetture e il paesaggio, ma soprattutto le storie delle persone che lo vivono e lo animano. Il borgo, nato come “invenzione”, mi sembrava un ottimo pretesto per esplorare come l’arte, la memoria e la vita quotidiana si intreccino creando un microcosmo unico.
Come valuta oggi l’equilibrio tra gli aspetti positivi e quelli critici di questa “invenzione”?
L’invenzione di Porto Rotondo porta con sé un fascino indiscutibile: nasce sull’idea di polis grazie a due fratelli veneziani, i Donà dalle Rose. Un porto, una piazza, la chiesa, il campanile… il senso di ordine, bellezza e armonia architettonica è evidente. Allo stesso tempo, come ogni costruzione ideale, nasconde criticità legate alla dimensione sociale e culturale, come la percezione di esclusività o la distanza tra realtà e immaginario. Credo che il documentario mostri proprio questa tensione, senza idealizzare né demonizzare il borgo. Porto Rotondo resiste nel tempo perché è stato “inventato” dai più grandi artisti della Biennale degli anni ‘60 – Mario Ceroli, Andrea Cascella, Giancarlo Sangregorio – e da grandi architetti come Gianni Gamondi, che non solo ha ideato la Certosa di Berlusconi ma ha progettato le case di Porto Rotondo in un’ottica di integrazione con la natura e il paesaggio.
Le illustrazioni di Mauro Moretti aggiungono un tono poetico. Perché ha scelto di introdurre il linguaggio del fumetto?
Il fumetto permette di raccontare la realtà con un filtro poetico, creando un ponte tra documentario e immaginazione. Mauro Moretti riesce a dare corpo a sensazioni, ricordi e dettagli invisibili agli occhi della macchina da presa: il risultato è un linguaggio visivo che amplifica l’atmosfera del borgo, rendendola divertente e universale allo stesso tempo.
Le musiche di Moses Concas hanno un forte ruolo identitario. Come avete lavorato insieme per tradurre in musica lo spirito del borgo?
La musica di Moses nasce da un ascolto profondo del luogo e delle storie delle persone. Abbiamo lavorato in grande sintonia, scambiandoci impressioni e suggestioni, cercando timbri e ritmi che potessero incarnare la luce, i colori e il ritmo della vita quotidiana a Porto Rotondo. La colonna sonora è diventata così un ulteriore narratore, capace di restituire emozioni che le immagini da sole non avrebbero potuto trasmettere. Nei miei documentari la musica è centrale: comincio sempre da lì, perché mi dà un ritmo – forse per via del mio passato nella danza.
Sono passati sessant’anni dalla fondazione del borgo. Che rapporto hanno le nuove generazioni con Poltu Ridundu?
Le nuove generazioni spesso percepiscono Porto Rotondo in modo più leggero, legato alla vacanza e al turismo, ma ci sono anche giovani che ne custodiscono la storia e il patrimonio culturale. Nel documentario ho cercato di mostrare entrambe le dimensioni: la memoria che resiste e la curiosità di chi lo vive oggi in maniera più informale. Porto Rotondo è percepito come un luogo iconico, legato ai privilegi e ai “belli, ricchi e famosi”; non tutti sanno però che è anche un museo a cielo aperto.
In molti vivono Porto Rotondo solo come meta turistica. Quale messaggio spera che arrivi allo spettatore guardando il film, che consenta di andare oltre la facciata superficiale del borgo?
Spero che lo spettatore riesca a percepire Porto Rotondo come un luogo vivo, fatto di storie personali, di memoria collettiva e di piccole quotidianità che spesso restano invisibili. Il film vuole invitare a guardare oltre la cartolina perfetta, scoprendo la poesia e le contraddizioni che rendono il borgo autentico e umano. In fondo, è una storia di incontri tra i “continentali” che, agli inizi degli anni ‘60, scoprono questo mondo incantato e ne fanno una meta di vacanza, e i sardi autoctoni: una storia di convivenza, di due culture completamente diverse che si incontrano e si scontrano.