Taranto, Sud Italia. Non il mare, non la città, ma un’eco. Una vibrazione sospesa tra ruggine e silenzio.
In Queste cose non avvennero mai ma sono sempre, presentato al Festival dei Popoli, il regista Pierluca Ditano costruisce un viaggio attraverso un paesaggio dove tutto è già accaduto eppure continua ad accadere, in una sorta di presente estenuato che non riesce a finire. Le rovine industriali e il paesaggio deserto diventano così il corpo stesso del film, un organismo ferito che respira lentamente, tra ferro, vento, rocce e sterpaglie, dove l’immagine sembra registrare più l’assenza che la presenza.
Tre figure si muovono in questo spazio rarefatto: un artista sonoro che raccoglie echi e interferenze tra i resti di fabbriche dismesse; una donna che vaga tra boschi e palazzoni, accompagnata da un cane nero, tra riti e pitture; e un vecchio contadino cieco che vive in una comune utopista, coltivando l’orto e recitando Dostoevskij come un rosario. Non c’è trama, non c’è sviluppo, ma un lento scorrere di gesti, voci, suoni. Il tempo non procede — si avvolge su sé stesso.
L’opera di Ditano è ostica, volutamente. Il suo ritmo è quello del ferro che arrugginisce, del vento che attraversa i capannoni vuoti, dei corpi che sopravvivono. È un cinema che chiede allo spettatore di sostare, non di capire. Di accettare la sospensione come unica forma possibile di conoscenza.
Le rovine come memoria
Nel cuore di Taranto, la siderurgia è stata per decenni una promessa e una condanna. L’Ilva — il colosso che ha definito la città — oggi è un relitto che abita l’immaginario collettivo come una divinità spenta. Ditano filma questo vuoto senza ricorrere alla retorica del disastro: lascia che a parlare siano i rumori, le frequenze radio, i riverberi metallici che l’artista sonoro cattura.
In questa ricerca ossessiva del suono, si percepisce il tentativo di dare voce a ciò che non parla più. Ogni fruscio, ogni interferenza, diventa memoria. È come se il film tentasse di riattivare l’anima sonora della città, un tempo riempita dal clangore delle fabbriche e oggi ridotta a un silenzio siderale.
Qui il pensiero di Walter Benjamin affiora con naturalezza: ogni documento di civiltà è al tempo stesso un documento di barbarie. Ditano sembra partire proprio da questa consapevolezza: Taranto non è solo un luogo ferito, ma anche un archivio vivente delle sue stesse contraddizioni. Le rovine industriali, immerse in una luce fredda e spenta, diventano una forma di sopravvivenza estetica — una testimonianza che continua a esistere proprio perché è stata abbandonata.
Benjamin parlava della rovina come di un punto di incontro tra storia e natura, dove il tempo smette di essere linea e diventa circolo. Così, Queste cose non avvennero mai ma sono sempre si muove dentro questa logica benjaminiana del frammento: il passato non muore, ma si ripete in nuove forme, si trasforma in eco, in rumore, in visione.
Il cieco e la visione interiore
L’anziano cieco è la figura più umana e misteriosa del film. Vive in una comune utopista, in un tempo che non appartiene a nessun calendario. Coltiva l’orto, ascolta il vento, recita Dostoevskij come un mantra.
La sua cecità non è limite, ma condizione di conoscenza. Vede ciò che gli altri non vedono: la fine delle cose, la bellezza che resiste nei dettagli.
La sua presenza introduce un’altra dimensione del reale — quella spirituale, che nel mondo della materia sembra non avere più posto. In lui convivono l’umiltà contadina e la profondità del pensiero: le parole di Dostoevskij diventano rifugio, ma anche guida etica.
“La bellezza salverà il mondo”, diceva il principe Myškin, ma nel film di Ditano la bellezza non salva: semplicemente resiste. È un piccolo fuoco acceso dentro l’oscurità, una memoria che continua a parlare anche quando tutto tace.
Il vecchio cieco, con la sua voce calma e le mani immerse nella terra, incarna la possibilità di un nuovo tipo di sguardo. Non più quello che domina, misura o registra, ma uno sguardo interiore, empatico, capace di ascoltare il mondo senza possederlo.
La donna, il bosco, i segni
L’altro polo del film è la figura della donna che si aggira tra i boschi, seguita dal suo cane nero. È una presenza enigmatica, quasi simbolica: una sacerdotessa del tempo perduto. Dipinge, compie gesti rituali, si muove tra luce e ombra come se cercasse di riconciliare la vita e la morte.
Le sue azioni non hanno spiegazione, ma possiedono una potenza arcaica.
Nel suo vagare, Ditano trova l’altra metà della sua ricerca: se il fonico rappresenta l’ascolto del mondo esterno, la donna incarna il bisogno di riconnessione con l’invisibile.
Il film diventa così una meditazione sull’atto stesso del “registrare”: registrare suoni, immagini, segni, ma anche emozioni, presenze, spettri.
La violenza del silenzio
Taranto, come molte città del Sud, è una ferita che non smette di sanguinare. Ditano non mostra esplosioni né catastrofi: la sua è una violenza lenta, insinuata nel paesaggio, nella ruggine, nei palazzi vuoti.
È la stessa violenza silenziosa che lo studioso Rob Nixon descriveva come l’effetto più subdolo del capitalismo industriale: una distruzione invisibile, che si consuma nel tempo, corrosiva e inesorabile.
Il regista filma questo paesaggio con una lentezza quasi ascetica. Ogni immagine è un atto di resistenza: uno sguardo che si rifiuta di voltarsi altrove. Il risultato è un film visivamente potente, che trasforma la decadenza in un linguaggio poetico.
Eppure non c’è compiacimento estetico: la bellezza qui non è ornamento, ma un modo per sopportare l’insopportabile.
Benjamin e l’eco del tempo
Il titolo del film, Queste cose non avvennero mai ma sono sempre, sembra dialogare ancora una volta con Benjamin, e con la sua idea che il tempo storico non sia una linea, ma una costellazione di momenti che si illuminano a vicenda.
Ditano lavora proprio su questa sospensione temporale: il suo è un cinema senza presente, dove il passato è ancora qui, e il futuro non è mai arrivato. Ogni gesto — scavare, dipingere, registrare — diventa un tentativo di far accadere qualcosa in un mondo che sembra già finito.
La provincia di Taranto, con le sue rovine, diventa il teatro di un eterno ritorno: non c’è progresso, non c’è redenzione, solo un ciclo di distruzione e resistenza. Ma in questa immobilità si nasconde anche la possibilità di un’altra forma di vita, più fragile e più sincera.
Ditano non costruisce un discorso politico diretto, ma suggerisce una filosofia del tempo: ogni fine è anche un inizio. Le rovine non sono solo ciò che resta, ma ciò che rimane vivo.
Resistere in silenzio
Queste cose non avvennero mai ma sono sempre è un film che chiede tempo, e silenzio. Il suo ritmo lento non è difetto, ma condizione necessaria per entrare in sintonia con ciò che racconta.
Ditano osserva senza invadere, filma con la pazienza di chi sa che la verità non si mostra, ma affiora.
Alla fine, i tre personaggi — il fonico, la donna, il cieco — diventano tre incarnazioni della stessa domanda: come vivere dopo la fine del mondo?
La risposta, forse, è nel silenzio. Nell’ascolto, nell’attesa, nella capacità di lasciarsi attraversare dal tempo senza opporvisi.
Come scriveva Benjamin, “ogni secondo è la porta stretta attraverso cui può entrare il Messia”.
E in quell’attimo sospeso, tra le rovine e il mare, Queste cose non avvennero mai ma sono sempre lascia che qualcosa — un suono, una voce, un respiro — accada di nuovo.