‘La tigre e la neve’ compie 20 anni: è ora di rivalutarlo?
Vent'anni fa l'ultimo film diretto e interpretato da Roberto Benigni. Accolto freddamente da critica e pubblico, mise fine alla carriera del comico toscano al cinema. È ora di rivalutarlo attentamente e riconoscerne i meriti
Il 14 ottobre 2005 usciva nelle sale italiane La tigre e la neve, ottavo e ultimo film diretto da Roberto Benigni. La pellicola, un ritorno alle tematiche dell’acclamato La vita è bella divise il pubblico e la critica risultando ad oggi uno dei lavori meno ricordati del regista toscano. A distanza di vent’anni proveremo a spiegarvi perché si tratta di un’opera che è importante riscoprire, proprio perché espressione della summa del cinema di uno dei personaggi culturali più importanti per questo Paese.
Roma, 2003. Attilio De Giovanni è un docente di letteratura italiana, appassionato di poesia, tormentato dall’amore non corrisposto per la critica Vittoria (Nicoletta Braschi) con la quale sogna di sposarsi ogni notte. Quando Vittoria parte per l’Iraq diventa una delle vittime del sanguinoso conflitto della nuova guerra del Golfo e a causa di un bombardamento finisce in coma. Attilio intraprenderà così un viaggio della speranza aiutato dall’amico iracheno Fuad (Jean Reno) per salvare la vita della sua amata.
L’ottavo film del regista toscano percorre il territorio già battuto da Benigni nell’acclamato La vita è bella Per capire le ragioni di questa scelta bisogna ben inquadrare questa pellicola nella carriera del regista. È il 2005 e Benigni, dopo il trionfo a Los Angeles, è ancora scottato dalla batosta del suo Pinocchio, stroncato dalla critica americana con tanto di vittoria ai Razzie Awards. Va da se che l’uscita de La tigre e la neve fosse vissuta con una comprensibile ansia da prestazione da parte del regista, data l’esigenza di riconquistare quel pubblico, soprattutto americano, scontento della sua ultima prestazione. Per riuscirci Benigni riprese la formula che tanto successo gli procurò nel 1997: un protagonista dal carattere fanciullesco, innamorato di una donna, sullo sfondo di un contesto bellico, appunto la seconda guerra del Golfo.
L’epilogo del Benigni regista
“Spero che questa storia vi sorprenda, vi distragga, vi inquieti, vi diverta e vi commuova. Forse sono troppe. Vabbè, ma anche una sola di queste già sarebbe una cosa straordinaria per un film”.
L’accoglienza riservata a La tigre e la neve, benché meno rigida e sanguigna rispetto a Pinocchio, risultò anche stavolta discorde, con pesanti stroncature dalla stampa statunitense. Il New York Times lo definì “un affronto bruciante all’intelligenza degli italiani, degli iracheni, del pubblico cinematografico ovunque”. Come per Pinocchio, la critica italiana fu più comprensiva. Tullio Kezich, pur rimarcandone i limiti, ammise che: “basta il momento in cui Benigni di fronte all’amata in coma è tentato di pregare Allah e recita invece il Padrenostro, quasi inventando le parole, per trasportare il film nei cieli della poesia. Dove spaziava Attilio (quello vero) e dove la Settima arte raramente perviene”. La comprensione della stampa italiana non salvò Benigni dal flop ai botteghini, in ragione anche dell’ingente investimento da parte della Melampo.
L’attore non ha mai rivelato se questa tiepida accoglienza lo avesse turbato quanto o più di quella riservata a Pinocchio. In ogni caso, non mise più piede dietro la macchina da presa, ritornando al cinema solo in qualità di preziosa risorsa per progetti di altri autori (Woody Allen, Matteo Garrone). Il Benigni cinematografico verrà definitivamente rimpiazzato dall’oratore televisivo con unanimi consensi. E La tigre e la neve? Risucchiato immeritatamente nel calderone delle opere minori dei grandi registi, viene poco citato nell’odierno dibattito cinematografico ed è protagonista solo di sporadiche repliche sui canali Rai.
L’ amore come risposta a ogni cosa
Siamo di fronte a uno dei migliori prodotti della filmografia del cineasta toscano, proprio perché concepito con la maturità artistica post-La vita è bella grazie alla quale il regista toscano ha evoluto il suo linguaggio prediligendo la parte più colta. Il film parte come un meraviglioso inno alla vita e alla forza dell’ amore, mai retorico o sdolcinato ma capace di arrivare al cuore dello spettatore con la delicata semplicità e la genuina immediatezza che il regista imprime ai suoi lavori.
Esattamente come accadeva ne La vita è bella, la commedia si tramuta in dramma e l’unica via di salvezza è rappresentata dall’amore, non più quello paterno di Guido verso Giosuè ma quello più viscerale, folle, a tratti primordiale di Attilio per Vittoria. Per godersi appieno la pellicola tuttavia bisogna venire a patti con la dissacrante ironia di Roberto Benigni, aspetto questo dal quale nascono la maggior parte delle opinioni dei detrattori.
Roberto Benigni si ama o si odia
Benigni ha uno stile suo preciso, dove a regnare è la sovversione dell’integrità dei contesti con cui viene in contatto, e che non concepisce la via di mezzo. Che lo si ami o lo si odi, conferma anche stavolta la capacità unica di fondere stili e temi diversi con la delicatezza di un poeta che compone i suoi versi, senza perdere di vista la centralità del racconto. Scene come il discorso iniziale agli studenti, o il confronto col vecchio saggio che potrebbe curare Vittoria, rappresentano piccole chicche di sceneggiatura da riscoprire (merito del compianto Vincenzo Cerami).
Degni di menzione sono le musiche del sempre bravo Nicola Piovani, e un comprimario di lusso come Jean Reno al quale è affidato il ruolo di guida spirituale, nonché ottima contrapposizione all’irrequietezza del protagonista. La tigre e la neve ad oggi ha un unico difetto: aver involontariamente privato il nostro cinema di uno dei suoi personaggi più geniali e iconici, che speriamo prima o poi si decida a tornare dietro la macchina da presa per raccontare nuovamente la realtà col suo stile unico e, giustamente, divisivo.