Visioni dal Mondo è un festival in cui il documentario riesce ad aprire nuovi spazi di riflessione, dialogo e opinione su temi di grande attualità. Nella sezione New Talent – First Opera, il film Cosa resta di Bianca Vallino, prodotto da ZeLIG – Scuola di Documentario, emerge per la sua capacità di raccontare, con delicatezza e profondità, la complessità dei rapporti in questo caso familiari. La pellicola si muove come un flusso di coscienza visivo, in cui gesto, parola e assenza costruiscono un dialogo potente. Il risultato è un’opera prima audace, che ha ricevuto una Menzione Speciale dalla giuria studentesca: “per il coraggio di mettere a nudo un’esperienza così vera, per uno sguardo capace di portare in superficie le confessioni più autentiche di un rapporto umano.”
Cosa resta
In una stanza bianca, sospesa dal tempo e dalla realtà, due sorelle (interpretate da Bianca e Nadia Vallino) si ritrovano. Quel luogo, inizialmente vuoto, si riempie lentamente di ricordi, giochi, silenzi e omissioni. È l’inizio di un viaggio condiviso attraverso le pieghe della memoria, alla ricerca di ciò che ancora unisce, di ciò che è cambiato, e soprattutto di ciò che resta.
La regista immagina l’interiorità come un labirinto fatto di stanze dell’anima: luoghi invisibili in cui si depositano esperienze, emozioni, silenzi. Con uno sguardo intimo e sospeso, Vallino vi entra, riportando alla luce brandelli di storia personale, e frammenti di un legame che il tempo sembra aver trasformato ma mai dimenticato.
Cosa resta, ci invita a sostare tra ciò che abbiamo perduto e ciò che ancora vive in noi. Un film che lascia spazio al silenzio e alla riflessione, e che parla in modo universale di tutti quei luoghi interiori in cui continuiamo a tornare.
Abbiamo avuto il piacere d’intervistare la regista, per capire come nasce il documentario, cosa significa per lei mettere in scena un vissuto così personale, e in che modo il cinema può diventare uno spazio di ascolto e trasformazione.

L’idea alla base del documentario
Come nasce Cosa resta? C’è stata un’immagine evocativa, una domanda ricorrente o un evento personale che ha dato origine all’idea?
L’idea è nata in modo molto concreto, quasi per caso: durante un trasloco, mi sono ritrovata con mia sorella nella nostra vecchia stanza, quella in cui abbiamo passato l’infanzia. Tra scatoloni, oggetti dimenticati, vestiti, cose accumulate nel tempo… è come se quella stanza si fosse improvvisamente riempita di ricordi e domande.
In particolare, me ne è rimasta una addosso: cosa resta? Cosa resta – e cosa cambia – quando torni nei luoghi della tua storia? Così ho sentito il bisogno di attraversare quella memoria in prima persona, e di farlo insieme a mia sorella. È diventato un modo per riabitare i nostri ricordi e raccontarci, forse per la prima volta, la nostra versione della nostra storia.
Da lì è nata anche l’idea della “stanza bianca”: uno spazio simbolico, sospeso, dove potessimo rivivere e rielaborare il nostro legame. Un luogo neutro ma pieno, che piano piano si carica di gesti, di assenze, di cose non dette.
A un certo punto ho iniziato a immaginare la memoria come un labirinto fatto di stanze dell’anima, ciascuna con la sua funzione, i suoi ricordi, i suoi nodi irrisolti. Una specie di bordello emotivo, disordinato, pieno di materiali sparsi.
La stanza vuota: uno spazio simbolico
Nel film le due sorelle si trovano a confrontarsi in questa stanza bianca, uno spazio neutrale che sembra racchiudere e sospendere il loro legame familiare, quasi come un’eco di un passato ormai superato. Come hai immaginato questo luogo? E in che modo dialoga con l’identità delle protagoniste?
Sì, allora, la stanza è bianca perché, per me, rappresentava un inizio. Un inizio nel nulla, un punto di partenza di tutte le cose. Da quel vuoto, pensavo si sarebbe lentamente riempita di qualcosa di sentito, necessario, di un ricordo forte, o di qualunque cosa sarebbe nata tra noi due, spontaneamente.
Quel luogo, per come dialoga con noi, ci ha offerto qualcosa che forse, nelle famiglie, è più difficile trovare. Soprattutto quando si è piccoli: un ambiente in cui potersi incontrare davvero, senza filtri o sovrastrutture.
È stato un modo per darci anche uno spazio di rappresentazione… o meglio, di manifestazione. Più che una messa in scena, un modo per esprimere qualcosa di autentico.
Ricordo una delle prime mattine in cui abbiamo lavorato lì: ci siamo fermate a meditare, ed è stato sorprendente percepire come quel vuoto assoluto contenesse qualcosa di profondamente spirituale.
Quando non c’è nulla che si impone o distrae, resta solo ciò che è realmente presente. Ciò che abita quel momento in modo vero.
Il tempo interiore nel flusso del racconto
Nel film, i momenti di silenzio e sospensione sembrano avere un ruolo forte: come avete lavorato sulla concezione del tempo all’interno della scena? E quanto spazio è stato lasciato invece all’improvvisazione?
Il tempo che ci attraversava dentro la stanza non era mai cronologico, né lineare.
Era un tempo percepito, interiore. Non il tempo scandito dalle azioni quotidiane, ma qualcosa di più profondo, di sospeso.
In parte, questo lo sapevamo: volevamo provare a restituire quella sensazione anche attraverso il montaggio, lavorando su una temporalità emotiva, non narrativa. A un certo punto, diventava persino straniante: non sapevamo più che ora fosse, né da quanto fossimo lì.
E forse è stato proprio questo smarrimento a permetterci di entrare davvero in un’altra dimensione e in contatto maggiore con l’altra. Credo che il luogo abbia avuto un ruolo importante anche in questo — ci ha permesso di uscire dal tempo esterno e abitare davvero quello interno.
In realtà, a partire da quell’immagine della stanza, a me interessava soprattutto l’idea del perimetro. Non era neanche, all’inizio, una stanza bianca: mi affascinava proprio l’idea essenziale, minimale, delle quattro pareti, del contenitore.
Avevo evocato dentro di me tutta una serie di “antimomenti” — li chiamavo così — che in qualche modo rappresentavano il nostro rapporto: immagini, oggetti, scene… elementi che per me erano simbolici. Quindi diciamo che esisteva un canovaccio interno, ma era solo mio. Non era condiviso con mia sorella. Era qualcosa che portavo dentro e che volevo provare a mettere in scena.
Alcune immagini, quindi, sono state pensate prima. Ma tutto quello che è accaduto davvero — le parole dette, le reazioni, i gesti — è stato improvvisato, secondo ciò che ognuna di noi sentiva in quel momento.
Chiaramente, essendo io regista ma anche co-protagonista, cercavo di guidare un po’… però i momenti migliori sono stati proprio quelli in cui non ci riuscivo. In cui non ero in grado di controllare. Perché è lì che è venuto fuori qualcosa di davvero reale.
Abitare nuovi spazi: il film come processo di trasformazione
Il film sembra seguire un percorso che ricorda, in un certo senso, un processo di elaborazione quasi terapeutico: le due sorelle riattivano dei ricordi, li condividono, li attraversano fino ad accettarli, riconoscendo che si può anche non coincidere perfettamente per volersi bene.
E poi c’è anche l’idea di abitare un nuovo spazio, che sembra suggerire l’inizio di una nuova fase di vita.
È un parallelismo che ritrovi e che ti sembra pertinente?
Sì. È un discorso che ha a che fare anche con una certa forma di terapia, diciamo, di elaborazione.
Anche se non è stato un intento consapevole. Non era qualcosa che avevo chiaro in mente fin dall’inizio.
Probabilmente lo era, molto, a livello inconscio. Infatti è un film profondamente inconscio, anzi, direi soprattutto.
Però sì, sono d’accordo con quello che dici. A tutti gli effetti è il processo interno di due esseri — un’elaborazione di un legame, di un rapporto.
E dal momento che il film racconta qualcosa di così interno, così invisibile, è difficile parlare di una trama in senso classico. La trama, in questo caso, è un percorso psicologico. A un certo punto è diventato quasi un flusso di coscienza e questo lo trovo molto bello, ma ormai non riesco più a guardarlo dall’esterno. Avendolo pensato, vissuto, e poi anche montato insieme alla montatrice, mi rendo conto di fare dei collegamenti tra le parti molto personali.
Riconoscersi nell’altro: viaggio identitario o smarrimento?
Nel documentario, le due sorelle sembrano potersi riconoscere solo — o soprattutto — attraverso il rapporto con l’altra, come in un gioco di specchi.
Mi ha colpito molto una tua frase: “Mi sono resa conto di aver imparato a ridere da te.” Secondo te, quanto del loro legame è parte di un percorso identitario? E quanto, invece, rischia di ostacolarlo o confonderlo?
Beh, il mio “personaggio” — che poi non è davvero un personaggio, ma la mia persona — in parte lo diventa comunque.
Perché, quando fai un lavoro del genere, anche se si tratta di un documentario — in questo caso di creazione, non proprio convenzionale — è inevitabile compiere delle scelte: cosa mostrare, cosa tenere fuori. E allora, sì, alla fine costruisci anche una figura. Non direi che sia esattamente “me”, ma sicuramente c’è qualcosa di profondamente mio, lì dentro. Quella figura, diciamo così, è fortemente dipendente dallo specchiarsi nell’altra.
Il film apre un processo, o forse lo fa iniziare fuori da sé. È un invito a portarlo avanti anche nella vita di tutti i giorni.
L’idea è non basare la propria identità sul rapporto con qualcun altro.O almeno, non definirsi solo attraverso quella relazione.
Perché credo che il rischio dell’amore — inteso in senso ampio — sia proprio questo: riflettersi troppo nell’altro, annullarsi, cercare un’unione che non lascia spazio, oppure aspettarsi che sia l’altro, in qualche modo, a salvarci.
Penso che questo progetto parta proprio da lì, da un attaccamento intenso, per arrivare a rielaborare un’altra possibilità: un senso di autonomia, di rispetto dei confini reciproci, del modo in cui ognuno esiste come individuo.
Quindi sì, l’amore — come dicevi anche tu — non è fusione, ma piuttosto l’idea di due rette parallele che a volte si incontrano, ma che non devono per forza coincidere.
Quello che accade, alla fine, è una trasformazione. Una rilettura del significato del legame, del posto che occupa all’interno della propria vita interiore.
La memoria è tale solo se condivisa?
Le protagoniste non solo condividono uno spazio ma ricostruiscono insieme la loro memoria: si vestono con gli abiti d’infanzia, fumano come adulte confuse nel gioco, disegnano la casa in cui sono cresciute, si ricordano e rivivono il dolore condiviso. Questo mi ha portata a chiedermi se per te la memoria è tale solo le condivisa o può avere un senso anche solo individuale?
Quando ho iniziato il film, credevo che la memoria fosse vera solo se condivisa. Devo ammettere che vivevo in una certa innocenza, nonostante la mia età non fosse certo quella di una bambina. Forse non avevo ancora capito davvero che, anche se abbiamo vissuto lo stesso momento, i ricordi possono essere completamente diversi per ognuno di noi.
Il passaggio è stato allora riappropriarsi della propria memoria come qualcosa di soggettivo, personale. E stupirsi quando, in qualche modo, si riesce a trovare una coincidenza, quasi fosse un piccolo miracolo. In realtà, l’altro ci aiuta anche in questo: a farci avvicinare un po’ a noi stessi, a delineare la nostra identità. Ci aiuta, ma allo stesso tempo ci allontana. Non saprei dire con esattezza come si mantiene questo equilibrio, perché in realtà è un continuo alternarsi: ci sono momenti in cui l’altro è necessario per non perderci, e momenti in cui proprio la sua presenza ci fa perdere.
Non sono arrivata a una risposta definitiva. È tutto ancora molto nuovo, e sento più domande che risposte. È un’esperienza molto soggettiva, e credo che proprio questo sia il bello del film.
Cosa resta davvero: un invito a custodire i legami
Siamo arrivati all’ultima domanda: cosa ti auguri di lasciare al pubblico con Cosa resta? E cosa invece speri resti davvero dentro di loro?
Forse c’è una cosa che mi piacerebbe condividere, anche se è un po’ nascosta dentro il film. Quando abbiamo concluso il montaggio, insieme alla montatrice Susanna Laruccia, ci siamo scambiate quasi un augurio, una piccola speranza.
Nel film abbiamo lasciato, in qualche modo, un invito per chi lo guarda: non tanto a fare un film con una persona in una stanza, ma a prendersi il tempo di immergersi davvero nella relazione con l’altro. Perché questo, oggi, sembra sempre più difficile, no? I rapporti importanti ci sfuggono, e questo film vorrebbe essere proprio un invito a imparare a stare con l’altro, a soffermarsi, a prendersi cura delle relazioni che contano nella nostra vita.
È un invito a riflettere su quello che abbiamo, a coltivarlo, ma anche a saper lasciar andare. Saper lasciar andare e sapere quando è il momento di chiudere un rapporto.
Certo, questo film l’ho fatto con mia sorella perché per tante ragioni lei era la persona giusta, ma credo che il discorso possa valere per qualsiasi rapporto d’amore. I temi sono universali.
Quindi, alla fine, per me è soprattutto un film sul lasciar andare, ma un lasciar andare fatto con amore, in un senso bello e profondo.