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Mubi Film

L’adolescenza è un mare in tempesta: riscoprire Shinji Sômai

Tre opere fondamentali del regista giapponese Shinji Sômai arrivano su MUBI: adolescenza, tempeste interiori e piani-sequenza che hanno segnato la storia del cinema nipponico

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Moving shinji somai

Shinji Sômai è una voce tra le più autentiche della New Wave nipponica, rimasta per troppo tempo in ombra al pubblico occidentale. Con un’estetica che fonde delicatezza e forza, e un’ossessione per i piani-sequenza interminabili e riflessivi, la sua traiettoria oscilla tra dramma, formazione e una malinconia luminosa.

Su MUBI, la rassegna Maree di Giovinezza: tre film di Shinji Sômai ci invita a tuffarci in un universo dove l’adolescenza non è mai sentimentalizzata, ma vissuta come tempesta interiore: corpo che cresce, desiderio che si fa luce nel caos.

Chi è Sômai, l’autore dimenticato che vale la pena riscoprire

Nato nel 1948 e scomparso prematuramente nel 2001, Sômai ha diretto tredici film tra il 1980 e il 2000. Amato da registi come Ryusuke Hamaguchi, Hirokazu Kore-eda e Kiyoshi Kurosawa, è stato definito da alcuni critici un “poeta del piano-sequenza”. La sua cifra stilistica non è mai mero virtuosismo: nei suoi long take lo spazio e il tempo si dilatano fino a diventare specchio della crescita, della vulnerabilità e della scoperta, in un modo disarmante per quanto semplice e stupefacente per quanto potente.

I tre film della rassegna sono un sunto della cifra autoriale di Sômai, opere importanti, specchio di una generazione e di un modo di fare cinema che ha segnato profondamente la prima generazione di quel Giappone così lontano eppure così legato all’occidente.

P.P. Rider (1983)

Un’avventura adolescenziale che è allo stesso tempo road movie e critica al mondo adulto. Tre ragazzi inseguono il rapimento di un loro compagno di classe, scontrandosi con gangster e figure ambigue. Memorabile la sequenza sul ponte, in cui i protagonisti sfidano il pericolo fisico: una metafora potente del confine labile tra innocenza e rischio. Il tono ludico si mescola con la violenza, mostrando come l’ingresso nell’età adulta sia segnato dal confronto con il lato oscuro della realtà.

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P. P. Rider (Shinji Sômai, 1983)

Typhoon Club (1985)

Forse il film che più di tutti sintetizza il talento di Sômai. Un gruppo di studenti resta bloccato a scuola durante un tifone, mentre fuori la natura si abbatte con forza, dentro esplodono pulsioni e fragilità. La danza liberatoria nella palestra, con la pioggia e il vento che bussano alle finestre, unisce eros, ribellione e disperazione adolescenziale. Il temporale esterno diventa specchio della tempesta interna: crescere è sempre un uragano che travolge e trasforma.

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Typhoon Club (Shinji Sômai, 1985)

Moving (1993)

Racconta la storia di Renko, undicenne che affronta il divorzio dei genitori. Attraverso lo sguardo della bambina, Sômai descrive la fragilità familiare e l’inesorabile perdita dell’infanzia. Il lungo piano-sequenza in cui Renko osserva in silenzio la nuova vita della madre, senza tagli, rende palpabile il peso del tempo che cade addosso. Crescere, per la protagonista, significa fare i conti con l’assenza, con l’abbandono e con la fine di ogni stabilità.

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Moving (Shinji Sômai, 1993)

Shinji Sômai, “l’altra” voce della New Wave giapponese

Il cinema di Shinji Sômai dialoga in modo sotterraneo ma evidente con altri autori della New Wave giapponese. Se Nagisa Oshima era il rivoluzionario politico, pronto a raccontare il corpo come terreno di conflitto sociale (Ecco l’impero dei sensi), Sômai concentra la sua attenzione sul corpo adolescenziale come spazio di crescita e vulnerabilità. Diverso è anche l’approccio rispetto a Nobuhiko Obayashi, che affrontava la giovinezza con un linguaggio visionario e pop (Hausu, Toki o kakeru shōjo), mentre Sômai resta ancorato a un realismo intriso di poesia visiva.

Con Kiyoshi Kurosawa, invece, emerge un parallelo sul tema dell’angoscia, ma declinata in chiave diversa: Kurosawa esplora il lato metafisico e perturbante (Cure, Pulse), mentre Sômai guarda all’adolescenza come passaggio universale, senza mostri esterni ma con tempeste interiori. Infine, in Ryusuke Hamaguchi si ritrova la sua eredità più evidente: la capacità di lavorare con tempi lunghi e dialoghi sospesi, evidente in Happy Hour, porta il segno della lezione di Sômai.

Una rassegna necessaria

La rassegna su MUBI rappresenta una riscoperta necessaria. Sômai, poco conosciuto fuori dal Giappone, merita di essere finalmente collocato tra i grandi registi del suo tempo. Le sue immagini non si limitano a raccontare storie, ma restano dentro, capaci di trasformare lo spettatore in testimone diretto della crescita dei personaggi. Le tematiche che attraversano i suoi film: alienazione, desiderio, perdita dell’innocenza, fragilità dei legami, parlano a ogni epoca e latitudine, dimostrando quanto il suo cinema sia ancora oggi universale e contemporaneo.

Rivedere Sômai significa anche riconoscere il suo ruolo di ponte tra generazioni: le inquietudini adolescenziali che esplora negli anni ’80 e ’90 si riflettono ancora nel cinema giapponese di oggi.

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