Con Nati per i social: la vita reale dei baby influencer, la regista Ines Novacic ci accompagna dentro il mondo dei giovanissimi creatori di contenuti, raccontandone la quotidianità attraverso interviste a loro e ai genitori. Una quotidianità che, inevitabilmente, è costantemente filtrata dai social media.
La serie, disponibile su Disney plus, è composta da 6 episodi e segue la famiglia Fisher, le gemelle Ava e Alexis McClure, Ethan Rodriguez e una breve apparizione della regina dei baby influencer Like Nastya.
Un set permanente
La regista ha seguito i protagonisti per circa cinque anni, dal 2019 al 2024, restituendo un ritratto del loro percorso sui social media: come sono cresciuti in questo ambiente e come li ha influenzati. Attraverso le interviste emergono questioni cruciali: lo sfruttamento minorile, il ruolo dei genitori che usano i figli come proiezione delle proprie ambizioni, la dipendenza dal pubblico e il bisogno costante di esibirsi. La serie mantiene un tono asciutto, senza giudicare direttamente: lascia che siano le parole e i comportamenti a parlare da soli. Ma quello che sembra “vita normale” appare presto come un set permanente, in cui i bambini non hanno piena consapevolezza del proprio ruolo. Ogni gesto, ogni contenuto, ogni momento diventa funzionale ad attrarre follower e a conquistare sponsorizzazioni sempre più importanti.
La domanda che guida il racconto è inevitabile: “È davvero tutto solo per soldi?”. A rispondere, indirettamente, è l’opinionista Tiffany Ferguson, quando afferma:
«Non è una piattaforma, è un centro commerciale dove ognuno cerca di venderti qualcosa».

Pur con qualche lungaggine di troppo e un montaggio abbastanza confuso, Nati per i social resta significativo, capace di aprire riflessioni scomode. La sensazione è quella di assistere a un piccolo Truman Show, in cui questi bambini recitano costantemente una parte. E la domanda finale che resta allo spettatore è forse la più inquietante: non sarà che anche nel documentario, come nella loro vita quotidiana, continuino semplicemente a recitare?
Il documentario si chiude informando lo spettatore che le piattaforme hanno imposto delle regolamentazioni per impedire lo sfruttamento. Però l’impressione, guardando il documentario, è che il confine tra realtà e finzione sia troppo labile, e lo spettatore non può fare a meno di chiedersi cosa resterà di questi anni di esposizione quando le telecamere si spengono.