La nuova serie dai creatori del cavallo più controverso della serialità, è un’irriverente e riflessiva jewish comedy su una famiglia divisa tra i mutamenti delle epoche. Non ha quasi nulla di Horseman conservando però il suo tratto emotivo
Raphael Bob-Waksberg, dopo il cult BoJack Horseman, torna su Netflix con un’altra serie animata: Long Story Short. Creata dallo stesso Waksberg e prodotta dall’ex CEO di Disney Michael Eisner e Netflix Animation, è scritta da otto sceneggiatori diversi con lo showrunner che inizia e conclude la narrazione. Prestano le voci nomi noti del calibro di : Dave Franco, Ben Feldman, Max Greenfield, Paul Reiser, Abbi Jacobson, e Gina Rodriguez.
Il TRAILER – Long Story Short
Sinossi – Long Story Short
La vita di tre fratelli di una famiglia ebraica, Avi (Ben Feldman), Shira (Abbi Jacobson), e Yoshi (Max Greenfield), viene scandagliata in una narrazione non lineare tra passato, presente e futuro. Con la classica ironia pungente e dissacrante del genere, la serie tocca temi sensibili come il lutto, la donazione del seme, e l’identità sessuale.
L’umorismo agrodolce di Bob-Waksberg – Long Story Short
L’annuncio del nuovo progetto di Waksberg su Netflix ha acceso fin da subito le speranze e le pretese di rivedere quel capolavoro che è stato e rimarrà BoJack Horseman. Ma già dalla sua promozione, Netflix e il suo showrunner ci hanno tenuto a rassicurare, nel contempo allarmandoci: non è BoJack Horseman e nemmeno ci si avvicina. Quest’ultimo punto è ambiguo, in quanto Bob-Waksberg, come molti autori che imprimono il proprio stile sulla commedia sociale, non nasconde quel mondo umoristico e aderente alla realtà della vita che ha ammaliato per sei stagioni il pubblico del cavallo ubriacone, e contraddittorio, della serialità animata e adulta.
Fatta questa premessa, la serie funziona grazie, e soprattutto, a due elementi: la sua discontinua temporalità e il flusso famigliare emotivo della commedia. Bob-Waksberg, in virtù dei fasti della serie madre, avrebbe potuto giocare la carta antieroica di personaggi alienanti, prede della propria distruzione sociale.
La nuova serie che non ha paura del paragone con BoJack Horseman
Invece lo showrunner decide, attraverso il tempo, di riflettere, grazie e soprattutto, all’anticonformismo della nuova famiglia americana su temi incredibilmente sensibili e contemporanei. Long Story Short è un titolo azzeccatissimo. Una storia lunga, divisa tra epoche e decenni, in un minutaggio proprio di una sit-com visto che ogni episodio è al di sotto della mezz’ora. Questo formato permette bene di scandagliare il piano temporale della serie, chiudendo un decennio e aprendone un altro, facendoci assistere alla fine e al riinizio di ogni episodio, e all’evoluzione fisica e psicologica dei protagonisti.
Nei primi episodi l’assoluto protagonista è il fratello maggiore, Avi, innegabilmente al centro di questo inizio serie. Su di lui ruota l’economia dei primi episodi; prima con la sua ragazza Jen che porta al caotico mitzvah del fratello, e dopo, quasi dieci anni dopo, con una discussione esistenziale con la sorella Shira.
ll romanzo di formazione famigliare
In questi due episodi assistiamo alla probabile struttura della serie: ragionare attraverso il caos e il tempo con tematiche che sono al centro della società della quale la famiglia Schwooper rappresenta una vivida estensione. Da sibito rilevante, il linguaggio usato da Bob-Waksberg, il quale ruota sul black humor e sulla riflessione dei costumi sociali. Se il primo episodio è di presentazione, mostrando la compulsiva famiglia con la figura opprimente della madre, il secondo sviluppa un umorismo essenzialmente legato alla morale episodica.
Long Short Story non è per tutti a livello comico, proprio per come pone le battute dissacranti come atmosfera indiscussa di una crisi famigliare e del coming of age. La serie Netflix vive della decostruzione del formato famigliare, dove ogni scelta dipende da un componente del nucleo che a suo modo deve adeguarsi alla collettività della famiglia per crescere insieme ad essa.
La non cronologia degli episodi sullo sguardo sociale
Rispetto a BoJack Horseman, pur conservando uno stile di dissacrazione della commedia, Long Story Short punta su un tono più famigliare e meno dark. Nella frammentazione del tempo, seppur discontinua, la serie di Bob-Waksberg è più vicina a titoli come This is Us per il modo in cui costruisce non linearmente tra passato, presente e futuro, un legame emotivo immediatamente profondo, non avendo però un tratto drammatico ma più scanzonato che equipara la family series a un altro prodotto netflixiano come Easy. L’epifania quotidiana ed episodica di Long Story Short è volontariamente disordinata; ci troviamo ora nel 1998 e poi nel 2001, nel 2004 e dopo nel 2014, con flashforward conclusivi che ci riportano molto più in là nel tempo.
Tale meccanismo temporale distorto favorisce il messaggio narrativo della serie. Una famiglia scomposta che tende sempre a una nuova struttura, in bilico, guardando alla vita come un puzzle da ricomporre. E se all’inizio sembra di assistere a una storia più corale e collettiva, l’antologia episodica è ferma sul character driven di personaggi sempre ben definiti.
Un nuovo capolavoro destinato a diventare cult
Avi, pur essendo il fratello maggiore, con la sua insicurezza rappresenta la futura generazione di trentenni e poi quarantenni schiacciati dal peso della famiglia. Shiva è una giovane lesbica indipendente con cui la serie guarda a una famiglia meno tradizionale e più moderna. Yoshi, il più piccolo dei fratelli, è un’estensione della generazione Z e Y, giocosamente disorientata dal mondo che lo circonda. L’unico baluardo della famiglia ebraica tradizionale è la madre, il vero capo-famiglia degli Schwooper, emblema dell’ossessione di una genitorialità sempre pronta a frenare la libera evoluzione delle nuove generazioni.
Questo è il tratto più evidente dell’erede di BoJack Horseman: imporre una discussione sociale sulla famiglia attraverso la forma della sit-com. Un progetto rischioso ma fin da subito sofisticato che non sembra far rimpiangere per niente il cavallo antropomorfo della serie cult. Un’ennesima dimostrazione del mantra del suo showrunner: eliminare la distinzione tra animazione e adult-drama.
Long Story Short è scritta con un linguaggio più filmico rispetto a Horseman, pur conservando tratti seriali innegabili (come la forma antologica). Espedienti che costringono la curiosità dello spettatore a continuare la visione grazie al tempo che scorre insieme alle vite dei suoi protagonisti. La distorsione cronologica potrebbe rappresentare un problema sulla sua linearità. Ma la riflessione sull’importanza di creare e mantenere legami duraturi, ci obbliga (qui la vicinanza più stretta con BoJack) a soffermarci sul senso del destino dei rapporti famigliari e personali. E su questa storia, lunga e corta nello stesso tempo.