Cult

‘La donna che visse due volte’: ossessione, vertigine e inganno

La Vertigine come condizione esistenziale

Published

on

Pochi sanno che La donna che visse due volte (Vertigo), prima di diventare una delle opere più iconiche della storia del cinema americano, doveva essere ambientato a Parigi. Il film, tratto dal romanzo D’entre les morts di Boileau-Narcejac, non  aveva come sfondo la San Francisco che oggi conosciamo. Grazie ad Alfred Hitchcock la città diventa più di un’ambientazione, labirinto verticale, instabile, dove ogni strada sembra condurre a un baratro. La vertigine non è più unicamente il disturbo del protagonista; bensì una condizione esistenziale, una vera e propria metafora della perdita del controllo. Ossessione e idealizzazione. Il regista la descrive così:

“Un uomo vuole trasformare una ragazza e poi, alla fine, scopre che si tratta della stessa donna.”

Inizialmente accolto con distacco rispetto alle sue opere precedenti, ha avuto la sua definitiva consacrazione nel 2012, grazie alla rivista Sight & Sound. Quest’ultima ha eletto l’opera come miglior film della storia del cinema. Non si tratta solamente di un thriller psicologico, bensì di una storia che parla di identità, desiderio, morte, proiezione e illusione. Un film che lavora per sottrazione e stratificazione, dove ogni sequenza scava sempre più a fondo. Con La donna che visse due volte, Hitchcock spinge la sua ossessione per il controllo dello sguardo, già ricorrente in Rear Window, Rebecca e Psycho. E lo fa attraverso due attori magnetici e complessi: James Stewart e Kim Novak.

Il gioco crudele di Scottie e Madeleine

Un ex detective con la paura del vuoto. Una donna che sembra vivere fuori dal tempo. Un incarico che è già una condanna. Scottie, chiamato dall’amico Elster (Tom Helmore) a sorvegliare la moglie Madeleine, entra in un labirinto fatto di rituali ossessivi: bouquet sempre uguali, un ritratto antico fissato troppo a lungo, passeggiate verso il mare per poi gettarsi tra le onde. È amore o è un sogno febbrile? Quando lei fugge in cima ad un campanile e precipita sotto i suoi occhi, Scottie è paralizzato: non può salvarla, la vede morire. Sembrerebbe la fine… o almeno così sembra.

Un anno dopo, una ragazza di nome Judy, bruna e vivace, riaccende in lui l’ossessione. Hitchcock lo disse chiaramente:

“Un uomo vuole rifare una ragazza a immagine di un’altra donna morta. È come se la stesse spogliando, un passo alla volta, finché non resta nulla della sua identità.”

Ma Judy è proprio Madeleine: attrice di un inganno ordito da Elster per uccidere la vera moglie e incastrare Scottie nella messinscena. Lo spettatore lo sa, Scottie no. Ed è proprio questo “little does he know” che trasforma ogni scena in un conto alla rovescia, ogni vestito in una prova, ogni pettinatura in un colpo di scena. Finché, di fronte alla collana di Carlotta, la verità esplode. Ed è proprio lì che la domanda diventa inevitabile: si può davvero amare qualcuno dopo averlo ricostruito? Oppure si ama solo la propria illusione?

Vertigine come trauma, l’altezza come incubo

Scottie non ha solo paura dell’altezza, ha paura della caduta. La sua acrofobia è la materializzazione di un trauma non elaborato. La vertigine che gli fa perdere l’equilibrio fisico è lo stesso sprofondamento che vive nella sua psiche. Hitchcock non lo nasconde: apre il film con un inseguimento sui tetti, dove Scottie resta appeso nel vuoto, incapace di muoversi, mentre un altro poliziotto precipita. Il trauma non viene mai affontato, resta sospeso, pronto a riaffiorare in ogni scena.

In questa caduta interiore, il protagonista cerca nell’amore una salvezza, ma trova in essa una nuova forma di vertigine: la perdita dell’altro e la necessità di ricostruirlo. L’illusione diviene dunque l’unico antidoto alla vertigine. Il racconto di un uomo, che cadendo nella sua Ombra, non riesce più a distinguere l’immagine ideale dell’amore dal volto reale della donna.

Tra rosso, verde e la memoria

Uno degli elementi più radicali di La donna che visse due volte è il modo in cui Hitchcock usa il colore come strumento narrativo, emotivo e simbolico. Il verde e il rosso diventano i codici visivi dell’ossessione: non decorano, ma disturbano. Il verde rappresenta il colore che segna il ritorno dello spettro di Madeleine, oramai ovunque. Appare nella nebbia, nella luce dell’insegna dell’hotel, ma soprattutto nel vestito che Judy indossa per completare la trasformazione.  È il colore dei fantasmi, dei sogni che tornano. È l’eco visiva della memoria. Quando Judy esce dal bagno trasformata, immersa in una luce verdastra, Hitchcock mette in scena un’apparizione più vicina all’horror, piuttosto che al romanticismo.

Il rosso invece esplode nei momenti di massima tensione: nei locali notturni, nei tramonti, nei sogni di Scottie. È un colore caldo, che qui brucia. Saul Bass, responsabile dei titoli di testa, gioca con spirali ipnotiche che sembrano già dire tutto: in Vertigo, il colore non è uno sfondo, è sintomo. La fotografia disegna l’instabilità emotiva dei personaggi e anticipa ciò che accadrà. In questo senso, il colore è anche uno strumento voyeuristico, in grado di obbligare lo spettatore a vedere, a penetrare e a partecipare. A trasformarsi, ancora una volta, nel doppio di Scottie.

La doppia ossessione: trasformare l’altro, perdere se stessi

La grande tragedia di Vertigo consiste nel fatto che nessuno dei due protagonisti è davvero libero. Judy accetta di trasformarsi per amore, ma in realtà è costretta a recitare due ruoli: quello dell’inganno e quello dell’amante. Scottie, dal canto suo, cerca nella nuova Judy una resurrezione di Madeleine, ma il suo desiderio è necrofilo: vuole riportare in vita una donna morta. E per farlo, uccide l’identità dell’unica donna ancora viva.

“Ho bisogno che tu sia Madeleine per un po’.”

Questa dinamica è brutale. L’amore non è mai amore: è desiderio di controllo, di proiezione e trauma. Hitchcock mette in scena la fabbricazione dell’immagine femminile da parte dello sguardo maschile. Judy non viene amata per ciò che è, ma per ciò che può diventare. E proprio nel momento in cui raggiunge quella somiglianza perfetta, il bacio tra i due si trasforma in un bacio allo specchio. Non c’è più una donna, bensì il suo riflesso.

Uomo malato o uomo innamorato?

Hitchcock non ha mai nascosto di diffidare dell’idea di “amore” come sentimento puro vero e proprio. Infatti, ne La donna che visse due volte, Scottie diventa la dimostrazione vivente che dietro la parola amore può nascondersi un impulso molto più cupo: il desiderio di possedere e controllare. Il suo rapporto con Madeleine e successivamente con Judy, non nasce da una connessione reciproca, ma da un’attrazione alimentata dal mistero, dall’idea di salvare una donna “in pericolo” e soprattutto dal fascino di un’immagine.

Non è passione romantica. É un comportamento compulsivo, patologico. Scottie non si innamora di una persona, ma di un’icona da ricostruire. La sua “cura” per Judy consiste nello smantellare ogni sua traccia di individualità fino a trasformarla nella copia perfetta di Madeleine. Judy d’altro canto, come raccontò Kim Novak, nutre un altro sentimento ancora: la paura del rifiuto, di non essere amata:

“Quella scena in cui Judy dice al personaggio di Jimmy che, se le permetterà di cambiarla, lui l’amerà… e lei risponde che lo farà, che non le importa più di se stessa. Quella scena per me era così importante. Ero così nuda lì, così disposta a essere qualsiasi cosa volesse, solo per essere amata.”

La donna che visse due volte ed i suoi fantasmi

L’opera non è un unicum isolato nella storia del cinema: è una radice da cui sono germinate altre opere ossessionate dalla costruzione dell’identità e dal gioco del doppio. In Mulholland Drive (2001), David Lynch riprende il tema della donna “reinventata” per rispecchiare il desiderio di un’altra, giocando con il confine tra sogno e realtà in una Los Angeles altrettanto seducente e minacciosa quanto la San Francisco di Hitchcock. In entrambi i casi, lo spazio urbano diventa un labirinto mentale e il desiderio si intreccia con la perdita e la colpa.

Ingmar Bergman in Persona (1966), spinge la riflessione ancora più in là: qui l’ossessione non è per un’immagine morta, ma per l’assorbimento totale dell’identità dell’altro, fino alla fusione. Il silenzio di una e la parola dell’altra creano un duello psicologico che, come in Vertigo, mette in crisi l’idea stessa di un “io” stabile.

Il film, come Persona o Mulholland Drive, smonta il mito dell’amore salvifico e ci mostra il suo lato patologico: quello in cui l’altro diventa una proiezione, e la relazione si trasforma in un progetto estetico, non emotivo.

Il fascino ipnotico

Ma cosa rende davvero La donna che visse due volte così indelebile nella memoria dello spettatore? Forse è il celebre “Vertigo effect”? Quell’illusione ottica di avvicinamento e allontanamento simultaneo che ancora oggi viene studiata e imitata, capace di restituire allo sguardo la sensazione fisica del trauma. Hitchcock ci lascia con un interrogativo sospeso, come un passo nel vuoto: guardare significa davvero capire, o significa solo lasciarsi ingannare dall’immagine?

Il capolavoro è disponibile a noleggio su Prime Video.

Exit mobile version