Quella sensazione di vuoto che ti accompagna fino agli albori del nuovo giorno quando inciampi in un’opera d’arte per sbaglio, con sufficienza forse, e all’improvviso senti di non poter mai più essere lo stesso; di non poter far resuscitare quella parte di te incurante e ignara di tanta bellezza… Beh, Tanna (2015) è uno di quei capolavori cinematografici che rimbomba nei silenzi e si prende spazio nella mente, anzi la nutre perché è vero e proprio cibo per l’intelletto. Indelebile ed eterna, la pellicola a cura di Bentley Dean e Martin Butler è una di quelle rare gemme che risveglia l’animo compiaciuto di qualsiasi cinefilo e dà onore alla cinematografia in qualità di disciplina. Il 24 luglio, dieci anni dopo il suo debutto in sala, Tanna è tornato sul grande schermo grazie a Trent Film , casa di distribuzione indipendente impegnata nella promozione e diffusione di nata per promuovere e diffondere film autoriali di merito. Tirano, Roma, Milano, Torino, Cremona e tante altre mete per non sfuggire a questo monile del cinema.
Tanna Un ritratto sublime di umanità
Tanna, è un sentiero selvaggio tra le vie di una delicata e fragile umanità. Uno sguardo così innocente e crudo nella sua osservazione della vita da lasciare addosso le impronte. La lente si stringe su un taglio antropologico, percorre le colline dell’avventura e si lascia andare a distese di romanticismo indomabili nonostante la loro gioviale esitazione, e sfocia nelle correnti della tragedia shakespeariana.
In un’ora e quarantaquattro minuti sono esplorati una vastità di temi, senza frenesia, senza frettolosa smania commerciale. Tutto fluisce, ogni pezzo si incastra, i generi si intrecciano tra loro, i personaggi non ostentano e restituiscono una storia tanto aliena quanto universale.

L’antico dramma dell’amore proibito
La drammaturgia del duo documentarista Dean-Butler attraversa le valli dell’amore prendendo l’eredità dell’amore proibito. Quest’ultimo però si scinde dalle farse glitterate di Hollywood. Si spoglia, figurativamente e letteralmente. Navigando acque inesplorate in questa sfera ormai conosciuta.
Declina diverse accezioni dell’amore e molteplici idiosincrasie: la perdita, l’odio, il perdono e la sete di vendetta, l’amore per la patria e un’attitudine collettivista contro l’individualismo e l’amor proprio, tribalismo e cristianesimo, la consapevolezza della propria femminilità in opposizione al patriarcato, la tradizione a discapito del progresso e viceversa. Il film offre una formula contemplativa lenta ma ritmatica.
Sconosciuto eppure così familiare
Tanna, isola del sud-ovest dell’Oceano Pacifico nel sud dello Stato di Vanuatu, apre i suoi confini per regalarci un’ambientazione suggestiva ed eterea. Sconosciuta da molti e caratterizzata da usi e costumi così inediti, Tanna presenta una delle storie più universali mai raccontate. I suoi arbusti, la nudità e la sua ammissione, i fiumi, le credenze: la regia non rincorre l’uomo al suo stadio primitivo bensì rappresenta l’umanità così come si è preservata lontana da costrutti sociali che si nascondono dietro al pudore e l’evoluzione: vero. L’autenticità non sta nei piedi scalzi, nelle gonne di paglia o armi forgiate dal legno, no: l’onestà di quest’opera risiede nella maniera in cui ogni personaggio vive di petto ogni emozione e situazione. Anche nella quiete lo spettatore non dovrà mai rompersi il capo per scoprire cosa i protagonisti stanno vivendo emotivamente perché sono blandi, nelle loro parole e nei loro gesti impetuosi. Il suolo dell’isola e l’eponimo film si riflettono allo specchio e camminano passo dopo passo, uno di fianco all’altro, senza mai superarsi o rimanere indietro.

La premessa
La quotidianità della vita in Tanna viene interrotta da una minaccia assai radicata per la tribù Yakel: i nemici vicini Imedin. C’è chi anni fa ha rovinato un raccolto e chi senza pietà ha ucciso il capo tribù e la moglie. C’è chi passa le giornate restando al proprio posto e chi per gioviale curiosità o per infimi desideri supera i confini nella speranza di dare il via .
Ma quando ci si odia si trova sempre il tempo per amarsi.
“Fin dalle origini i capi hanno combinato i matrimoni lungo le Strade Kastom ma due innamorati scelsero di percorre un’altra strada [..] In molti sull’isola hanno abbandonato gli antichi usi. Si sono persi per strada”
Così incontriamo la nostra coppia condannata fin dall’esordio ad un nefasto destino. Il valoroso figlio dell’ormai deceduto capo Yakel, Dain, e la radiosa nipote dello Shamano, Wawa. Il loro è un corteggiamento muto, pudico. L’anelito di questa unione rimane sospeso tra risate timide e ininterrotti, lunghi sguardi d’amore. Lei promessa sposa al clan nemico, lui disposto a fronteggiare la morte piuttosto che la separazione. Qui la sfera carnale e spirituale combattono su perimetri mercuriali. Abbandonarsi ad una fine esiziale per onorare una promessa d’amore che non merita di essere impedita a fini di baratto: Daine e Wawa fanno le veci di Romeo e Giulietta in un classico avanguardistico nella sua essenzialità innocente.
Un’opera lirica orchestrale e palpabile
Un canto recita quelle parole nell’incipit del film che si apre nella lussuria verdeggiante della foresta di Tanna. La scena iniziale sagoma la malinconia di questo amore proibito ma ammalia lo spettatore con la sontuosità della terra, della carne. La pellicola risveglia tutti i sensi.

Albe inverosimili e lo scoppiettare del fuoco cullano la rancorosa monotonia dello spettatore. La terra calpestata, il vento furente che parla una lingua decifrabile solo da chi ha un cuore predisposto a sentire, il cinguettare degli uccelli, il richiamo della tribù con il suono di una conchiglia, i lamenti delle donne del villaggio all’unisono che sembrano un canto sacro, le cicale, il fruscio delle gonne. Tutto dà vita ad un’esperienza palpabile.
La colonna sonora
Non è ingombrante, piuttosto dà voce ai sentimenti inespressi reclusi in quella battaglia tra ragione e sentimento. Schiarisce quelle zone grigie che la linguistica non ha il potere di descrivere. Per gran parte del film, la pellicola respira autonomamente ma quando i componimenti musicali perforano la narrazione, essi esacerbano ogni sensazione stimolata dalla cinematografia. La lava – grande attore non protagonista – danza imperterrita su uno struggente sottofondo. Qui il genio di Anthony Partos (compositore) e Lisa Gerrard (vocalist) raggiunge il suo culmine per uno spettacolo scenico che toglie il fiato e come inchiostro permea la pelle e si rende immortale nella memoria.

I due amanti diventano esili ombre dei loro stessi corpi di fronte al vulcano in eruzione. Del resto non hanno mai avuto veramente possesso della loro carne – chissà se ne hanno mai avuto della propria anima –. Due sagome quasi immobili: Wawa e Dain non sono mai stati più vivi che in questo momento. Si sfiorano, si stringono l’una nelle braccia dell’altro: si abbandonano. E in questa sequenza così onirica per quanto straziante, anche la musica si abbraccia alla fotografia e si abbandona in giochi di rincorsa. Arriva prima una poi l’altra e finalmente, si sposano esplodendo come il vulcano, prima donna di questa scena per sempre indelebile nella storia della cinematografia. In Tanna – come anticipato – anche il commiato ha un suono ben distinto. Non è solo un pianto soffocato in gola, è un vero e proprio canto di cui ognuno conosce lo spartito. Le note sono spirituali, il tono è consacrato alla solennità ecclesiastica.
Evadere, scoprire, perdersi, meravigliarsi
Il cinema è un medium nobile che ha il potere di sopraggiungere a numerosi fini. Tanna senza provarci nemmeno, sa soddisfarne talmente tanti dà far immedesimare il pubblico, non con i personaggi, ma con l’intangibile sentimento che li avvolge e guida. Dai condannati ai capi villaggio, dalle donne ai bambini; ognuno dona uno sguardo alla vita penetrante.
“La sofferenza porta saggezza, uccidere arreca solo dolore. Una parte cerca di prendere il potere, l’altra si vendica. Figli divisi di Tanna, riunitevi in pace. Tornate alle nostre origini, ascoltate la saggezza degli antenati, e vivete nuovamente in armonia.”
Perché l’essere umano per assaporare la pace deve prima sporcarsi le mani di sangue? I dialoghi di questo lungometraggio sono esili e privi di metafore poetiche eppure Tanna è così idilliaco nel modo in cui affronta questioni scomode. Senza ritegno alcuno, la narrazione si incentra su una popolazione che per onorare le Strade Kastom affonda nel disonorevole.

Tabù
Una parola così corta, vanta solo due sillabe, eppure porta con sé un peso esistenziale. Vivere senza paura è davvero possibile? Questo è il desiderio di Wawa, vivere senza paura. Forse, in fondo è quello di tutti. Spogliarsi di quei timori che tengono ancorati al terreno e spiccare il volo: vivere la vita senza ma e senza se. Tutti quei fatidici tabù però spezzano le ali. In nome dei desideri altrui ci si rende piccoli tanto da sparire, tanto da mentire a se stessi e non riconoscersi più. In comunità tribaliste come quelle rappresentate in Tanna così come nelle strade asfaltate del più familiare occidente. Quanti si sono sacrificati per il bene comune? Quanti hanno soffocato i propri sogni più ardenti per soddisfare quelli altrui, per non deludere le aspettative e non violare alcun tabù? E chi come Wawa si è sentito dire: “Questa cosa non riguarda te, riguarda tutti noi. Lo capisci? Ho bisogno di te ora.” Oppure cercando di dare sfogo alla propria volontà è stato zittito con un beffardo “Chi ti ha dato il diritto?”

In un paese dove la libertà sembra essere l’unica vera virtù rispettata, vi è comunque il furto della stessa per piegarsi alla tradizione, ai convenevoli politici. Alti edifici non offuscano la visuale eppure anche qui, in mezzo ad un’oasi paradisiaca, l’uomo ha imparato a rubare la libertà altrui. Non la confina dietro mura cementate, ma ovunque ha lo stesso sapore: sa di morte. La verità è che in alcune realtà seguire il proprio cuore vuol dire dover convivere con ramanzine futili domenicali a tavola, mentre per altri vuol dire portare sulle mani crimini non commessi, portare sulle spalle la responsabilità di uno sterminio in nome della tradizione. Obbedire o rincorrere la felicità? Un dilemma ancestrale che purtroppo non trova un lieto fine in Tanna ma segue lealmente la narrazione tragica shakespeariana.
Lo Spirito Madre Yahul
Le leggi del villaggio sono dettate per venerare il vulcano Yahul: personificazione della madre spirituale della comunità. I suoi fumi, ogni sua eruzione, le sue rocce fredde e la sua ribollente lava: lo spirito parla. Sa essere tenero come Dain e Wawa, esplosivo ed erratico come la piccola Selin, severo e intransigente come i capi villaggio. Ogni sua particella narra la disperazione della coppia, le paure degli anziani e la temerarietà dei più giovani.

Selin: spettatrice onnisciente ed immanente
La piccola Selin, sorella minore del nostro personaggio protagonista femminile, è il nostro spettatore onnisciente. Lei e lo Spirito Madre Yahul possono dirsi le due facce della stessa medaglia. Entrambe figure chiave di questo racconto, sentono e vedono tutto, empatizzano e s’impregnano della vulnerabilità altrui, ma rimangono lì, costanti e solide come rocce. Selin è condannata a testimoniare i momenti più crudi: l’aggressione allo Shamano, per lei semplicemente il nonno, la fuga di sua sorella maggiore e la perdizione. È buffo come la curiosità ti porti a non perdere nulla di una vita che merita di essere ancorata alle memorie. Purtroppo però essere così attenti alla vita, vedere e non guardare soltanto, vuol dire anche essere incapaci di fingersi ciechi al dolore, prendere la gioia con il dolore vi è affianco.
La prodigiosa Selin, esuberante e insolente, non è solo una scalmanata bambina da educare. lei è la vera eroina di questa tragedia. Una guerriera sfacciata che sacrifica il dolce sonno spensierato dell’infanzia per vegliare su sua sorella. Ogni passo, ogni nascondino, lei sa sempre precedere le sue mosse, ma come di consuetudine i grandi non badano mai al sapere dei bimbi. No, loro si autoglorificano convincendosi che più anni passati sulla terra equivalga ad una saggezza più erudita. Sentono ma non ascoltano. Starà alla nostra piccola Selin scovare i due fuggitivi.

Prima ci aveva accolto con tono irriverente, la risata l’accompagnava come un amico fidato, poi la vita si è fatta troppo vera per lasciar spazio alla beatitudine. La sua voce è diventata più tenera nella desolazione, le sue parole più scandite. Con lei, Wawa e le veterane del villaggio, il film celebra e indaga le diverse accezioni della femminilità.
La terra dà e la terra riprende
Tanna è esotico e accattivante ma anche sontuosamente malinconico, il film così come l’isola.Proprio da Yahul, vulcano e Spirito Madre, dove un tempo la piccola e ribelle Selin aveva meditato sulla vita al fianco del saggio nonno, ora, sempre su quella polvere vulcanica, avvolti dai fumi che parlano di straziante incertezze, Wawa e Dain contemplano la morte. Prima Yahul rappresentava la libertà dai dogmi del cristianesimo, libertà dal colonialismo e dalla tentazione del denaro; ora è persecuzione e fuga dalla propria gente. Il vulcano sapeva cullarti nella notte con le sue dolci parole soffiate. Ora il loro stormire è opprimenti, il frastuono non lascia spazio al sonno ma solo alla paura e l’inquietudine. La mente è offuscata e così anche il cielo, dai fumi dello Spirito o dai dissensi della tribù. Ma la vita intorno al vulcano sa essere anche dolce se accompagnati dal proprio primo amore e si addenta un favo di miele puro.
Adesso ascoltate le loro parole: “avete visto la forza del nostro amore, vi abbiamo mostrato cosa provavamo. Ci avete negato una vita insieme, non abbiamo avuto altra scelta che dire addio per sempre.”
