Nel 1973 usciva nelle sale uno dei film più importanti di tutti i tempi. Probabilmente l’horror più celebre della storia del cinema. Il capolavoro di un regista dalla carriera maledetta: L’esorcista di William Friedkin.
“L’esorcista”: tra i film horror più spaventosi di sempre
Regan, una ragazzina di dodici anni di Georgetown viene posseduta dal demonio. Così, un prete in profonda crisi di fede e un celebre esorcista si trovano costretti ad affrontare un brutale ed estenuante duello con il Male per salvare l’anima della bambina. L’esorcista è un’opera che è stata affrontata, analizzata e approfondita in ogni suo frame e che ancora oggi si presenta a ogni cinefilo come un oggetto magico e affascinante da maneggiare. Critici e studiosi di ogni luogo hanno cercato di penetrare i dubbi di fede di padre Karras attraverso le immagini partorite dalla mente di William Friedkin. Dunque, cosa si può ancora scrivere su un film di questa portata? Quali altre vie ci permette di percorrere?
“L’esorcista”: la genesi di un film horror tra i più famosi
Un caso di possessione diabolica, ufficialmente riconosciuto dal Vaticano, avvenuto nel Maryland nel 1949 attira la stampa. Il Washington Post gli dedicherà un articolo che attirerà un giovane studente di Georgetown: William Peter Blatty.
Blatty si ricorderà di quell’evento fino al 1971, anno d’uscita del suo romanzo più celebre: L’esorcista.
L’opera diventa un bestseller e la Warner non si fa sfuggire l’occasione. Ne acquista i diritti e concede all’autore la possibilità di diventare sia sceneggiatore che produttore della trasposizione cinematografica del romanzo. Il progetto sembra destinato a realizzarsi con tutti i favori del pronostico fin quando la produzione non si arena nella ricerca di un regista. Mike Nichols, Peter Bogdanovich, Arthur Penn e Stanley Kubrick sono i nomi di tutti coloro che non accettano di dirigere il film, mentre Mark Rydell viene rifiutato dallo stesso Blatty.
Tuttavia lo scrittore ha in mente il nome di William Friedkin, che aveva già rifiutato di girare Peter Gunn: 24 ore per l’assassino, poi diretto da Blake Edwards nel 1967, – non soddisfatto della sceneggiatura dello stesso Blatty – e che aveva appena riscosso un enorme successo dal pubblico e dalla critica con Il braccio violento della legge nel 1971.
Friedkin stavolta accetta e il resto è storia.
“L’esorcista cast”: i precedenti lavorativi dei protagonisti
La cosa interessante che si cela insolitamente dietro la genesi di uno dei film dell’orrore più celebri della storia del cinema è che quasi tutti gli uomini citati hanno avuto dei rapporti più o meno stretti con la commedia.
Innanzitutto, il trait d’union più forte e allo stesso tempo più curioso fra L’esorcista e la commedia è rappresentato proprio dalla figura di William Peter Blatty. Nel 1971, prima di legare definitivamente il suo nome all’horror demoniaco, era uno sceneggiatore di commedie di grande successo. In particolare, il suo nome era legato a quello di Blake Edwards, con il quale aveva cominciato a lavorare firmando lo script del sequel de La pantera rosa (1963) e Uno sparo nel buio (1964), il primo film interamente slapstick della saga e forse il vero capolavoro del ciclo dell’ispettore Clouseau. Inoltre, Blatty era anche un noto scrittore di romanzi umoristici come I, Billy Shakespeare!, Twinkle, Twinkle e Killer Kane.
Non possono passare inosservati i nomi di Mike Nichols e Peter Bogdanovich. Il primo aveva rivoluzionato la commedia con Il laureato nel 1967, partorendo un prodotto anomalo (la cosiddetta dramedy) che cambierà per sempre l’industria cinematografica americana. Il secondo invece, ha legato la sua carriera proprio alla commedia di stampo classico hollywoodiano (anche se va sottolineato che nel 1971 non si era ancora cimentato in nessun prodotto di questo genere).
Infine, non va dimenticato che lo stesso William Friedkin aveva esordito al cinema nel 1967 con una commedia musicale, Good Times, e aveva diretto Quella notte inventarono lo spogliarello nel 1968, appartenente allo stesso genere. Genere che ha poi iniziato a stemperare virando verso il drammatico nel sottovalutato Festa per il compleanno del caro amico Harold del 1970, lasciando comunque un lontano retrogusto da commedia.
William Friedkin e il suo “esorcista”: un horror che nasce dalla commedia?
Con questo retroterra professionale da parte dei creatori de L’esorcista, non si può non riflettere per un momento sul rapporto fra la commedia e l’horror.
Si è già detto moltissimo a riguardo e ci sono film che hanno fatto di questo rapporto inusuale e contraddittorio – ma allo stesso tempo curiosamente stretto – un loro punto di forza. Come non citare il testo capitale della sintesi fra orrore e commedia, Un lupo mannaro americano a Londra (1981) di quel geniaccio di John Landis, che ha in comune con L’esorcista Rick Baker, celebre effettista, che era l’assistente di Dick Smith sul set di Friedkin.
Il punto è che la commedia, così come l’horror, opera un ribaltamento della realtà creando uno falla, una discrepanza fra l’aspettativa e la sua espressione (ricordiamo la riuscitissima metafora del sarcasmo come un burrone nel recente Inside Out 2). In tal senso, quale film ha saputo aprire questo squarcio mettendo in discussione la presenza o la non presenza della spiritualità e del sovrannaturale all’interno del reale, se non proprio L’esorcista?
Le scelte registiche di William Friedkin sono tutte imperniate attorno alla volontà di mettere in scena l’orrore all’interno di un contesto estremamente realistico, aprendo difatti una ferita nella realtà, capace di mostrarci cosa può insinuarsi in qualcosa di così apparentemente comune e quotidiano.
“L’esorcista”: l’horror tra i più famosi che mette in dubbio la fede
L’esorcista è un film che descrive la difficilissima lotta dell’individuo di mantenere la propria fede, e di come le ineluttabili fragilità umane siano la via per il Male di fare il suo accesso nel reale. Pazuzu possiede il corpo dell’innocente Regan, una ragazzina appena dodicenne, ma si serve di lei per minare l’animo tormentato e ricco di sensi di colpa di padre Karras. Il demonio mente inducendoci verso il Male oppure questo Male è già dentro di noi e il demonio non fa altro che riportarlo alla luce?
Sono queste, assieme a molte altre, le domande che si pongono padre Karras, padre Merrin, gli altri personaggi del film e di riflesso, anche gli spettatori. Ma l’ambiguità attorno a cui è costruita l’intera opera non ci permette di dare risposte definitive (stato d’animo esattamente descritto nel finale originale e non in quello più cattolico e rassicurante del 2000).
Friedkin e ll “neorealismo” dell’orrore
Per comunicare questa profonda ambiguità appartenente alla natura dei personaggi, alla realtà che vivono e alla stessa fede in Dio, William Friedkin costruisce un finissimo gioco di doppi, geometrie e simmetrie che hanno come base la scelta di far entrare l’orrore nel quotidiano senza però delegarlo al fuori campo come succedeva nel cinema coevo. Anzi, lasciandogli ampio spazio nei territori del visibile.
L’operazione del regista di Chicago è quella di adottare una forma di linguaggio che ha le sue radici nel neorealismo rosselliniano, il quale poneva la sua forza nella pura osservazione della realtà. Tuttavia, quelli sono gli anni dell’iperrealismo spinto e Friedkin ne è un esimio esponente. Inoltre, decide di fondere questi due codici con un altro, apparentemente lontanissimo, come il surrealismo (la celebre scena dell’arrivo di padre Merrin a casa MacNeil cita L’impero delle luci di Magritte).
l’esorcista e il Male come forma visibile
Se, come detto poc’anzi, fino a quel momento l’orrore e il sovrannaturale avevano fatto il loro ingresso nella realtà di tutti giorni – pensiamo a Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (Roman Polanski, 1968) o a La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968) – è con L’esorcista che il Male prende forma visibile e invade l’inquadratura plasticamente. E può farlo proprio grazie alla fusione di linguaggi operata da Friedkin che opera una spaccatura irreparabile nella realtà.
Infatti, se la sequenza iniziale in Iraq ci ricorda la natura ancestrale, lontana e profonda dell’orrore (e anche la natura stessa della tradizione narrativa orrorifica fino a quel momento), quest’ultimo inizia a destabilizzarci quando entra in ambienti urbani: la casa dei MacNeil, la metro, l’ospedale. Tutti ambienti a noi conosciuti, vissuti e fin troppo autentici.
In questo L’esorcista crea uno scarto. Come può il sovrannaturale, la spiritualità, l’orrore, il Male e tutto ciò che riguarda la fede entrare in casa nostra, nella (nostra) realtà e per di più, assumere una forma visibile?
È questo l’aspetto che terrorizza ancora oggi del capolavoro tratto dal romanzo di William Peter Blatty. E, secondo prospettive e metodi completamente diversi, la commedia fa lo stesso: si insinua in queste ferite della realtà quotidiana per destabilizzarci e mostrarci qualcosa di completamente diverso da ciò che ci si presentava in apparenza.