Nei suoi 15 minuti di durata, il cortometraggio In The Waiting Room, presentato al Cactus Film Festival nella sezione cactus edu, riesce a raccontare, attraverso le immagini, con maestria e delicatezza, molto più di quanto le parole dicano. Diretto da Moatasem Taha, regista palestinese, il film ha già conquistato pubblico e critica nei festival internazionali grazie al suo tono profondo.
Ambientato in una sala d’attesa di un ospedale israeliano, prima degli avvenimenti del 7 ottobre 2023, il corto usa un contesto quotidiano per esplorare le fratture generazionali, linguistiche e identitarie di una Palestina che vive – e spesso sopravvive – dentro i confini di Israele. Un’opera che emoziona senza forzature, e che colpisce proprio per quello che sceglie di non mostrare.
In the waiting room: la sala d’attesa come metafora della vita

La vicenda del film si svolge principalmente in una sala d’attesa di un ospedale israeliano, fredda e impersonale, dove i due protagonisti Hussein e Rashida aspettano per la visita medica di quest’ultima, la madre di Hussein.
La tensione tra i due personaggi protagonisti prende corpo attraverso piccoli gesti, sguardi, espressioni trattenute. Hussein, assorbito dal lavoro e forse anestetizzato dalla sua routine, rappresenta una generazione che cerca stabilità attraverso l’emancipazione professionale. Rashida, al contrario, è fragile, spaesata, ma umana nel suo bisogno di connessione. Il suo ebraico impreciso, i tentativi un po’ goffi di avviare una conversazione con gli altri presenti nella sala, diventano il cuore pulsante del film. Le performance misurate di Marleen Bajjali e Jalal Masarwa sono essenziali ma incisive: in un contesto così minimalista, anche una pausa ben calibrata può raccontare più di mille parole.
La regia di Moatasem Taha si distingue per uno stile visivo asciutto, ma proprio per questo visivamente molto potente, in quanto conduce lo spettatore diretto al punto: il focus narrativo è l’isolamento scaturito dall’impossibilità di comunicare con l’altro, a causa degli ostacoli linguistici. Non c’è musica a suggerire emozioni, né tagli di montaggio frenetici: ogni scena è costruita sulla sospensione, sull’attesa – come suggerisce il titolo del cortometraggio.
Un cortometraggio che racconta l’attesa, tra vita quotidiana e tensione politica

Ciò che rende In The Waiting Room un’opera così rilevante, anche a posteriori, è la sua capacità di usare il quotidiano per riflettere su un’intera condizione politica e sociale. La relazione tra madre e figlio diventa il simbolo di una Palestina interna a Israele, visibile eppure ignorata, divisa tra integrazione forzata e desiderio di identità. Non c’è bisogno di mostrare un posto di blocco, un militare o una bandiera: basta il silenzio che segue una frase detta male, o lo sguardo straniante dei presenti nella sala.
La madre Rashida, nel suo tentativo ingenuo ma coraggioso di comunicare, è quasi sovversiva: è lei che, senza volerlo, rompe il fragile equilibrio dell’attesa passiva e rende palpabile una tensione invisibile ma costante. Se il film fosse stato girato dopo gli eventi accaduti il 7 ottobre 2023, probabilmente avrebbe avuto un tono più cupo. Invece, proprio la sua ambientazione in una normalità sulla soglia del possibile lo rende, oggi, un’opera molto potente per la storia socio-politica degli ultimi 50 anni che ha avuto come protagonista il medio Oriente. La sala d’attesa appare allo spettatore come una reliquia, un luogo sospeso nel tempo, un’ultima immagine di convivenza tesa ma reale. Ed è in quella normalità crepata, in quel gesto trattenuto o in quella parola spezzata, che il film trova la sua voce più politica, più umana, più universale.