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‘Ferro 3’, il cerchio che si chiude

Ovvero, come un film ha indovinato il mio destino anni prima che lo incontrassi

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Kim Ki-duk

Non pensavo mi sarei ricordata così a lungo quella scena. Non pensavo che quel bacio sarebbe stato il più potente della mia storia del cinema. Intrappolato ed etereo.

Non si trattava tuttavia solo di quell’ultima sequenza: tutto il film mi aveva lasciato qualcosa che avrei trovato difficile da dimenticare. Qualcosa di numinoso, una premonizione che solo il destino ci offre: quando ci pare che il disegno si chiarisca e un primo impulso diventa poi un motivo di vita o una chiamata.

Il film ha acceso una scintilla che mi ha condotto dove sono ora.

C’era qualcosa di magnetico nella totale assenza di dialogo, e una assordante presenza di significati. Il silenzio proiettava quella storia in un universo sospeso, che levitava appena sopra la crudeltà della vita reale.

Kim Ki-duk aveva modellato una dimensione che stava tra lo spirituale e il romanzo d’amore, in cui non si poteva rilassarsi completamente neppure nel tanto atteso lieto fine, che lieto sembra non poter essere completamente.

Era quella la prima volta che mi sentivo travolta intimamente da una narrazione che arrivava da oriente. Magari perché ero ancora troppo giovane per capirci qualcosa, o magari perché aspettavo proprio quel film, quella pellicola, ad accompagnarmi nel mio viaggio di esplorazione della cinematografia asiatica.

Ne è passato di tempo da allora, era il 2004 e Kim Ki-duk vinceva il Leone d’Argento con una favola che nessuno si aspettava: Ferro 3 – La casa vuota.

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Sarebbe stato un regista circondato dalle controversie, non lo potevo sapere. Al tempo mi pareva un mago del mezzo visivo, e allo stesso modo uno psicopatico che infilava dentro le sceneggiature le peggiori turbe e paure mai rivelate. Non potevo credere che qualcuno scrivesse storie così estreme, di odio e amore, così lontane dai canoni occidentali e malgrado questo, così blasonate dagli occidentali.

Ci sono voluti diversi anni e tante visioni per andare a fondo di questo linguaggio, e ancora oggi non sono esente da quell’intenso turbamento che il regista ha sempre inteso scatenare nello stomaco del suo pubblico. Nonostante le centinaia di ore di visione di questa narrazione, tuttora non è che un intrigata sciarada. Eppure quella magia in seguito e gradualmente, è sfumata: inghiottita forse da quella stessa follia che faceva capolino a lato, che talvolta travolgeva la narrazione tradizionale e trasportava nel proibito le sue storie. Ad un certo punto si è perso, il buio che aveva dentro si è preso prima le storie e poi l’essere umano.

Per lungo tempo non ho voluto fermarmi a condannarlo o lasciare che l’opera artistica che conservavo nel mio cuore, venisse umiliata e disgustata dalla verità.

Ferro 3, oggi

Oggi, venti anni dopo, sono in Corea. Cammino per le strade e riconosco lo stile delle case che Tae-seok esplora. I palazzi con le porte sui corridoi esterni, l’hanok e le giare nei giardini. Di quel mondo adesso faccio parte, e sorrido ogni volta che la grana rarefatta del girato o il volto pulito e privo di imperfezioni di Jae Hee mi tornano in mente. Ma Kim Ki-duk non si può nominare: in Corea il suo nome e la sua carriera, macchiata di numerose e ripetute accuse di molestie e di misoginia, sono quasi un tabù. All’estero si è salvato, parzialmente, inghiottito dalla strage del COVID e protetto dall’aura ipnotica della sua narrazione magistrale.

E io? Sono arrivata al dunque. Mi confronto con la verità fuori dallo schermo. Dove Ferro 3 mi ha aperto una porta su di un mondo, il suo creatore mi ha forzato ad un traumatico risveglio. Quel mondo di fisicità perfette e corpi candidi, è un Paese dove la disparità di genere ha ferito profondamente l’universo femminile. Tanto che i crimini di cui Kim Ki-duk è stato accusato, sono solo la punta dell’iceberg di un sistema sociale davvero complesso e macchiato, spronato dal #MeToo e con un movimento femminista ancora giovanissimo. Che si meriti quindi tutto questo, arte, artista e realtà, una mia condanna?

Mi rivolgo ancora speranzosa verso quella storia: c’era la denuncia di un marito abusivo, che adesso osservo con occhi diversi, vedendone la contemporaneità e la sostanza della sua presenza.

Mi domando se quello che pensavo essere un bacio idilliaco non sia in realtà nient’altro che la proiezione di un sogno. Un’interpretazione a cui io non ho mai voluto credere, perché in cuor mio quello era solo il passo prima della fuga dei due amanti, verso nuove porte da aprire. D’altronde, il film si chiude proprio con una frase

Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia una realtà o un sogno

che ribadisce un enigma che si estende ben oltre la storia d’amore, di furti e di palline da golf.

Quel dualismo indefinibile è l’essenza della vita di un regista capace di creare un idillio creativo e cinematografico, ma anche di vivere mostrando il peggio della natura umana. Avrei voluto che quella contraddizione restasse confinata nella finzione cinematografica. Invece ho scoperto che la Corea è tanto incantevole quanto il grande amore che il film racconta, e dolorosa quanto i colpi inferti da quel “ferro tre”.

A distanza di tempo e dopo numerose riletture, percepisco in Ferro 3 meno candore. Sento piuttosto risuonare un urlo, malgrado l’assenza quasi totale di dialoghi. E accolgo il tacito invito a solidarizzare con queste donne e a smascherare questa finta perfezione riecheggiando la loro denuncia.