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“Essere una donna nel cinema può costarti 2 milioni” Intervista a Aude Léa Rapin e Ève Robin

Regista e produttrice. Due ruoli complementari che convivono all'unisono per trasformare un sogno in film. Aude Léa Rapin, regista francese di Planet B e Ève Robin, produttrice di Les Films Du Bal, parlano del loro rapporto, delle difficoltà di creare cinema al femminile e delle loro carriere in rapida ascesa

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Aude lea rapin Eve robin

Aude Léa Rapin e Ève Robin sono le protagoniste della sezione Campolungo alla 26ª edizione dello ShorTS International Film Festival Maremetraggio di Trieste. Aude Léa Rapin è una sceneggiatrice e regista francese diplomata a La Fémis. Ha iniziato come fotografa e videomaker nei Balcani e in Africa, realizzando un trittico di documentari sulla guerra nei Balcani. Dal 2014 si dedica alla finzione, con cortometraggi premiati e due lungometraggi: Heroes Don’t Die (Cannes 2019) e Planet B (Venezia 2024). Ève Robin è produttrice cinematografica con una doppia laurea in cinema e legge, e un diploma in coproduzioni internazionali. Dopo un’esperienza con KIDAM e Les Films du Poisson, nel 2016 co-fonda Les Films du Bal, producendo film come Atlantique e Dahomey di Mati Diop, Planet B di Aude Léa Rapin e Arenas di Camille Perton.

Campoluogo si sofferma sul percorso di giovani autori e autrici la cui filmografia si misura sia nel campo del corto che del lungometraggio e che quest’anno ha come focus il rapporto produttore-regista, a questo proposito le due protagoniste della sezione terranno una masterclass venerdì 4 luglio. Al festival saranno inoltre proiettati tre cortometraggi di Aude Léa Rapin: La météo des plages(2014), Ton cœur au hasard (2015) e Que vive l’Empereur (2016) e il suo lungometraggio Planet B (2024), film d’apertura dell’ultima Settimana della Critica di Venezia.

Su questi temi, legati al dietro le quinte della produzione di un film e sul lato umano, dei rapporti che si creano tra le persone prima che professionisti, abbiamo parlato con loro, in una conversazione sincera, coinvolgente ed entusiasta.

Spero di non esagerare nel direi che tra di voi si è già instaurata una vera e propria collaborazione artistica, fondata su una visione comune, sull’impegno e sulla fiducia nei progetti che realizzate. Progetti che hanno anche un valore culturale e artistico significativo. Come vi siete conosciute e quando avete capito di poter costruire qualcosa di importante insieme?

Ève Robin:
Ci siamo incontrate per la prima volta quando entrambe facevamo parte di una commissione per un fondo regionale della Nuova Aquitania, in Francia. Dovevamo selezionare dei cortometraggi da sostenere economicamente attraverso il fondo. Credo che fossimo in sette, e noi due eravamo tra questi membri. In quel periodo, Aude Léa stava realizzando il suo primo lungometraggio, Les héros ne meurent jamais (Gli Eroi Non Muoiono Mai, 2019), e stavo producendo anch’io il mio primo lungometraggio, Atlantique di Mati Diop.

Abbiamo iniziato a parlare, e a me piacevano moltissimo i suoi cortometraggi. Quando poi mi ha parlato del suo primo film, mi è sembrato un progetto straordinario! Da allora ho seguito tutto il suo percorso. Quando ha finito il film, lo ha presentato al Festival di Cannes, lo stesso anno in cui anch’io ero lì con Atlantique. È stato da quel momento che abbiamo cominciato a parlare di fare qualcosa insieme. Adoravo la sua visione, il suo modo di vedere le cose. Per questo desideravo davvero lavorare con lei. Così abbiamo cominciato a discutere di vari progetti.

Durante una di queste conversazioni è emersa la voglia condivisa di realizzare un film di fantascienza. Da lì è nato Planet B.

Aude Léa Rapin:
Sì! avevamo proprio questo desiderio in comune: fare un film di fantascienza. I nostri due primi film, Atlantique e Les héros ne meurent jamais , già contenevano elementi che sfioravano la fantascienza, come una corrente sotterranea. Quindi, in un certo senso, proseguire in quella direzione ci sembrava una continuità naturale. E poi condividiamo anche altre cose. Per esempio, ci interessava moltissimo l’idea di inserire dei personaggi femminili centrali in un film sci-fi – cosa che, a parte in Alien, è estremamente rara da trovare.

Avevamo anche il desiderio comune di parlare di un certo tipo di attivismo per la difesa della natura, che oggi è sempre più criminalizzato. Non so com’è la situazione in Italia, ma in Francia sembra quasi che chi difende l’ambiente sia un criminale. E quello, in fondo, è stato il punto di partenza, nonché d’arrivo se vogliamo del nostro film.

Planet B Aude lea rapin Eve robin

Adele Exarchopoulos in Planet B (Aude Léa Rapin, 2024)

Vorrei chiedervi anche quanto sia complesso oggi, per due donne, realizzare film ambiziosi e impegnati come Planet B.Vi ha influenzato, questo, nelle scelte produttive e narrative? E il fatto di essere una squadra vi ha aiutate?

Aude Léa Rapin:
Assolutamente sì. Se non ci fosse stata questa squadra, io non avrei nemmeno sognato di poter fare un film così. E sinceramente non credo che ci sarei riuscita da sola. Ma non è solo una questione di genere. È anche una questione legata al tipo di progetto: un film ambizioso di fantascienza è già di per se una sfida nel panorama europeo, dove raramente si fanno film del genere.

Ci sono pochissimi esempi, soprattutto perché i budget richiesti sono importanti e si tende sempre a confrontarsi con i blockbuster americani. Quindi sì, è stata una grande sfida per entrambe, ma eravamo anche molto consapevoli fin dall’inizio che dovevamo essere forti insieme, e soprattutto molto realistiche. Sapevamo che non avremmo avuto 50 milioni di dollari, né 5.000. Quindi il lavoro è stato anche quello di scrivere un film che potesse essere prodotto per davvero. Il processo è durato tre anni: due anni di scrittura, un anno di produzione e preparazione, e poi un altro anno di post-produzione, per me la scrittura è stata senz’altro la parte più difficile.

Ève Robin:
Sì, la scrittura è stata fondamentale, e siamo riuscite a lavorare bene come squadra. Come dice Aude Léa, era importantissimo essere coscienti del budget mentre si scriveva. Io sapevo che, al massimo, avrei potuto raccogliere 7 milioni. Alla fine siamo arrivate a 5 milioni. E questi finanziamenti li abbiamo ottenuti anche grazie a un forte supporto: dalla distribuzione, dalle vendite internazionali, Netflix, OCS… Ma 5 milioni era davvero il massimo.

Credo sinceramente,  lo dico con onestà, che se Aude Léa fosse stata un uomo, o se io fossi stata un produttore uomo, forse avremmo potuto raccogliere di più. Lo dico perché ci ho lavorato molto, ho contattato tutti i fondi regionali, ho fatto un lavoro immenso per raggiungere quella cifra. Per esempio, Cédric Jimenez ha ottenuto molti più soldi per fare i suoi sci-fi… Ovviamente non è lo stesso percorso che abbiamo fatto noi.

Aude Léa Rapin:
Forse essere donne ci è costato 1 o 2 milioni in meno. È possibile.

Ève Robin:
Sì, può darsi. Ne ho discusso anche con il mio partner per le vendite internazionali, che allora era Orange Studio (oggi assorbito da StudioCanal). Anche da parte loro si riconosce questa difficoltà: è molto raro che una regista donna riesca ad avere un grosso budget. Se vogliamo vedere il lato positivo, possiamo dire che siamo riuscite a ottenere 5 milioni. Ma per fare il film al massimo delle sue possibilità, ce ne sarebbero voluti 7. E penso che il fatto di essere una squadra di donne abbia reso più difficile ottenere quei 2 milioni in più.

Detto ciò, non voglio negare il grande supporto che abbiamo ricevuto. Davvero. Non sarebbe corretto. Abbiamo avuto alleati formidabili, anche fino all’uscita in sala.

Aude Léa Rapin:
Bisogna anche sottolineare una cosa però: il 90% delle persone che hanno deciso di sostenerci erano donne, donne in posizioni decisionali, nei canali TV, nella distribuzione, nelle vendite internazionali. C’erano pochissimi uomini tra i nostri sostenitori. Non so cosa significhi, ma è significativo.

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La Météo Des Plages (Aude Léa Rapin, 2014)

Aude Léa, tu sei passata dalla fotografia e dal documentario, ritrovandoti spesso in situazioni difficili tra i Balcani e l’Africa, alla fiction.
Cosa ti ha spinta a cambiare linguaggio? E cosa ti sei portata dietro da quella prima fase della tua carriera?

Aude Léa Rapin:
Bella domanda. All’inizio ero convinta che il cinema fosse troppo lontano da me, quasi irraggiungibile. La fotografia e il documentario erano cose che potevo fare da sola, senza soldi, senza permessi, bastava una camera ed essere da qualche parte, per me è stata una vera scuola di vita, durata quasi dieci anni. Quando sono tornata dall’Etiopia, era il 2012/2013, ero davvero esausta. Il viaggio era stato durissimo, per tanti motivi.

Lavoravo per Care International, una grossa ONG americana. Facevo video per loro. Mi proposero subito un’altra missione, in Sud America. E io dissi no. Avevo passato dieci anni a testimoniare la vita degli altri, ed era stato incredibile, ma sentivo che avevo bisogno di esprimere qualcosa che avevo dentro. Così ho fatto domanda per un laboratorio di scrittura alla Fémis, dove si poteva scrivere un primo lungometraggio. E l’ho fatto. Contemporaneamente ho iniziato a girare cortometraggi da sola, senza soldi, con i miei amici. Come facevo con i documentari: eravamo in due, io con la camera, un fonico, e gli attori. Piano piano è diventato un percorso più professionale, che mi ha portata a Planet B, che considero il mio primo vero film.

Planet B è stato il primo progetto in cui ho potuto davvero esplorare tutte le tappe della creazione cinematografica: dalla scrittura al finanziamento, alla preparazione, alle riprese, alla post-produzione. Il primo in cui ho potuto scoprire la potenza del cinema: effetti speciali, musica, un montatore vero… Prima montavo tutto da sola. Per la prima volta ho sentito di avere a disposizione tutto quello che il cinema può offrire.

Guardando i tuoi film, Aude Léa, sembra che ci sia sempre un tentativo di destabilizzare la narrazione classica e di interrogare la realtà da un punto di vista laterale. C’è una rottura, un disallineamento, che mi pare funzioni sia come scelta estetica sia come atto politico. È così?

Aude Léa Rapin:
Sì, credo che sia così, anche se forse non ci ho mai pensato in termini teorici. Probabilmente ha a che fare con il fatto che ho cominciato in piena libertà. Quando non hai budget, hai comunque molta libertà. Non puoi fare tutto quello che vuoi, ma puoi fare molte cose in maniera diversa. Quindi la vera questione per me è stata trovare un metodo. Ad esempio, nei miei tre cortometraggi, non avevo una sceneggiatura scritta in modo classico. Avevo una direzione, sapevo dove volevo arrivare, ma molto veniva scoperto sul set.

Sapevo il giorno in cui avrei cominciato a girare, ma non sempre sapevo quando avrei finito. Con Planet B è stato tutto diverso: sei mesi prima delle riprese già sapevo esattamente cosa avrei fatto il 6 marzo (il giorno d’inizio delle riprese n.d.r.), e giorno per giorno. Per me è stato un passaggio importante, ma anche una sorta di sfida personale. Penso che quando hai la sensazione che tutto sia già stato fatto nel cinema, sia liberatorio non sentirti obbligata a essere “la brava studentessa”.

Questo perché non ho frequentato molto le scuole, avevo un approccio molto libero, quasi ingenuo. Con i documentari, poi, ero abituata a non avere pubblico: dieci anni fa, anche nei festival, i documentari erano molto più marginali rispetto alla fiction. Quindi avevo dimenticato cosa significasse pensare a un pubblico, a un’audience. E questo mi ha permesso di essere libera: non pensavo a come sarei stata giudicata. È stato solo con il mio primo lungometraggio a Cannes che ho scoperto la violenza della critica.

Quel film lo avevamo girato in Bosnia, a Sarajevo, con una troupe di dieci persone, compresi gli attori. E lì ho scoperto che esiste un “mondo reale”, che il cinema è anche un’industria, che i film devono uscire, trovare un pubblico, e tutto questo implica esposizione, soldi, rappresentazione. Io davvero non avevo pensato a tutto questo. Ma quell’esperienza difficile mi ha permesso di incontrare Ève che mi ha protetta, mi ha accompagnata, senza mai cercare di correggere o contenere la mia scrittura. Ha guidato le mie idee, piuttosto, aiutandomi a farle esistere.

Per questo Planet B è diventato un film che può essere letto in modi diversi: c’è chi lo legge come un film d’intrattenimento con un bel cast, e chi ne coglie la lettura politica, questo era l’obiettivo e penso che ci siamo riuscite.

Dahomey Eve robin

Dahomey (Mati Diop, 2024)

Eve, con Les Films du Bal hai prodotto film come Atlantique, Dahomey, e naturalmente Planet B. Si tratta di opere radicali, non concilianti. Che tipo di rischi comporta, anche a livello di mercato, sostenere questo tipo di film? E quali sono i criteri che guidano le tue scelte artistiche?

Ève Robin:
Per me è molto importante contribuire a film che abbiano qualcosa da dire, che difendano un immaginario con valori forti, importanti. Mi interessa moltissimo il cinema politico. Ma allo stesso tempo non voglio fare film che nessuno andrà a vedere. Il mio obiettivo, come produttrice, è accompagnare progetti che affrontano tematiche politiche, ma che riescano anche a creare un legame narrativo forte con il pubblico. Per esempio, in Planet B c’era un tema politico molto chiaro, ma abbiamo scelto la fantascienza come linguaggio proprio perché poteva aiutarci a raggiungere il pubblico.

Anche Atlantique è un film molto politico, ma raccontato con una dimensione fantastica e poetica. Dahomey è un documentario, ma con un punto di vista fortissimo, con una visione politica chiara, e al tempo stesso molto narrativo e accattivante secondo me. Quindi sì, questa è la mia linea: cercare film che abbiano un contenuto politico forte, ma che siano anche aperti, capaci di emozionare. E poi, naturalmente, penso molto anche alla forma.

Credo che il cinema debba proporre nuove forme. La televisione, per me, serve a riprodurre. Il cinema deve inventare. Per questo ogni film che produco deve portare con sé anche una proposta formale, un’idea di linguaggio.

Volevo aggiungere anche una riflessione: ho l’impressione che quando un produttore o una produttrice sceglie di lavorare con film così impegnati, anche il suo ruolo diventa quasi politico Cosa ne pensi? Come si è evoluto il tuo modo di concepire il lavoro di produzione nel tempo? E in che modo i tuoi studi giuridici hanno influenzato questa visione?

Ève Robin:
Certo, capisco bene la domanda. Io ho studiato sia cinema che diritto. Sono stata anche avvocata per un periodo e penso che studiare la legge sia un modo molto interessante per imparare a pensare la società. Quando ero giovane, facevo parte di un gruppo che rifletteva molto su questioni politiche e sociali. All’università c’erano movimenti, contestazioni. Ma ci tengo a dire che non è una “maschera”. Non è che voglio diventare “la produttrice politica”.

Non è il mio obiettivo costruire un’identità così, ma sì, quello che facciamo con la cultura, con il cinema, con il teatro, con la musica, è difendere valori, immaginari collettivi desiderabili. Per me è fondamentale continuare a lavorare sulla rappresentazione, per difendere diritti importanti. Questa è la funzione della cultura.

Ma non voglio essere politica tanto per essere politica. Non mi interessa. Quello che voglio fare è un cinema generoso e anche la radicalità, a suo modo, può essere generosa. Fare cinema è già, in sé, un gesto politico, secondo me.

Aude lea rapin Eve robin

Ton Coeur Au Hasard (Aude Léa Rapin, 2015)

Un’ultima domanda. State già lavorando a nuovi progetti insieme?

Ève Robin:
In effetti sì, stiamo lavorando sia a un documentario che a un nuovo film di finzione. Quest’ultimo sarà molto, molto grande, ma non possiamo ancora parlarne…

Aude Léa Rapin:
No, infatti! Per ora è un segreto, non possiamo dire nulla. Per quanto riguarda il documentario, invece, è ispirato a due battaglie ambientali molto forti in Francia: Notre-Dame-des-Landes e Sainte-Soline. In questi due luoghi ci sono state grandi lotte per la difesa dei territori. A Notre-Dame-des-Landes si opponevano alla costruzione di un aeroporto, e dopo cinque o sei anni di lotta, hanno vinto. A Sainte-Soline invece c’è stata una battaglia molto violenta tra attivisti e polizia, con tantissimi feriti. Lo Stato ha addirittura mandato l’esercito, per un solo giorno, in un’azione totalmente sproporzionata.

Il governo ha definito questi attivisti “eco-terroristi”, anche se si trattava di persone che difendevano semplicemente la loro acqua. C’è poi un legame molto forte tra questo progetto e Planet B ed è un motivo di interesse in più per noi. Molti di questi attivisti si sono riuniti sotto il nome “La terre se soulève” ovvero “La terra si solleva” e hanno scritto un libro collettivo. Noi abbiamo acquistato i diritti per adattarlo.

Sarà un documentario molto intimo, che parte da una domanda semplicissima: “Che acqua beviamo?” E non sarà solo rivolto al passato, ma anche al futuro: come possiamo agire, se la politica non fa nulla per proteggere le condizioni della vita? Abbiamo appena cominciato, ma prevediamo di girare l’anno prossimo, e di uscire probabilmente nel 2027.

Taxidrivers allo ShorTS International Film Festival Maremetraggio