La figlia dell’artista: l’assurdo poetico e la morte come gioco
Una fiaba grottesca e ironica in cui un padre e sua figlia muoiono, poi ritornano in vita, mentre la tragedia si scioglie nel gioco e la morte diventa un leggero uccellino di carta.
La figlia dell’artista– il cortometraggio animato del regista bulgaro Dimitar Dimitrov in programma al Festival internazionale Le Giornate della Luce – è una storia grottesca e surreale sulla morte, che talvolta appare persino più umana della vita. Il film è ambientato nella Russia staliniana, in una città sovietica astratta dove la libertà è stata soppiantata dall’industrializzazione e dalla burocrazia. La Rivoluzione bolscevica e l’ideologia dell’uguaglianza promossa dal comunismo hanno dato vita a una città futuristica solo in apparenza: un’utopia tradita, trasformata in distopia. Qui, le persone vivono intrappolate in gabbie monotone dallo stile costruttivista. Né l’artista né sua figlia – protagonisti del film – riescono ad adattarsi a questo mondo.
Quando l’assurdo prende forma
“La figlia dell’artista”, aggiudicato il premio per il Miglior film bulgaro in occasione della 20ª edizione del World Festival of Animated Film di Varna, è tratto dal poema “Padre e figlia” (1936) dello scrittore e poeta sovietico Daniil Kharms, figura di spicco dell’assurdismo letterario, che rifiutava consapevolmente la narrazione logica e realistica. Le sue storie, spesso frammentarie e non lineari, sono popolate da personaggi ed eventi privi di coerenza oggettiva – un aspetto che sembra interessare particolarmente a Dimitrov, nel suo dialogo con il testo di Kharms. Sia lo scrittore che il regista offrono una visione del mondo sovietico fondata sulla cieca sottomissione, dove l’assurdo si intensifica e l’identità personale si dissolve.
Curiosamente, Dimitrov ricopre nel film non solo il ruolo di regista, ma anche di sceneggiatore e artista, sottolineando così il legame personale e creativo con l’opera. Egli non si limita a trasporre il poema parola per parola, ma lo rielabora mantenendone la logica paradossale e il tono da fiaba nera urbana: la morte di un bambino, la sua resurrezione dopo il funerale, la morte del padre, un nuovo ritorno in vita, una lunga e felice esistenza. In questa struttura volutamente assurda, il regista introduce nuovi elementi: motiva la morte della figlia (che nel poema è casuale e priva di spiegazione), attribuisce al padre una professione (nel testo originale non specificata) e arricchisce l’immagine della figlia. Dimitrov costruisce anche un ambiente urbano dettagliato, come se fosse lo stesso protagonista a dipingere lo sfondo della propria esistenza.
Visione sovietica
Il disegno, ispirato al cubismo e caratterizzato da tonalità spente, richiama le estetiche del modernismo e dell’avanguardia, rafforzando l’atmosfera di ansia e depressione. In questo paesaggio fumoso e rarefatto, sembra impossibile provare qualcosa che non sia malinconia. Le strade geometriche pullulano di auto e persone; rumori e musica risuonano nei grattacieli; gru e ciminiere illuminano lo spazio con un’indifferenza monotona. Su tutto domina il rosso sovietico, acceso sullo sfondo del grigiore quotidiano.
Nel complesso, l’ambiente urbano del film riflette influenze del costruttivismo, dello stile staliniano e, in parte, del brutalismo. Al contrario, l’arredamento dell’appartamento e la rappresentazione dei protagonisti sono più vicini all’estetica avanguardista, ricca di colori, illusioni e fugacità. Anche il mondo ultraterreno del cimitero si distingue nettamente dalla città sovietica.
Il grottesco del vivere
Nel caos della città, l’attenzione si concentra su due figure silenziose che si muovono in moto: padre e figlia. Una volta rientrati nella loro casa – uno spazio luminoso e tranquillo – i due sembrano tornare alla vita. Il loro appartamento è un rifugio sicuro, dove trovano posto musica, pittura, risate e danza. Ma l’idillio si spezza presto: la figlia muore. Come nel poema di Kharms, la morte è presentata in modo banale, spoglio di emozioni, come se fosse un semplice gioco. Da qui si sviluppa una catena di eventi paradossali: padre e figlia muoiono e risorgono a turno, si seppelliscono l’un l’altro, ricevono e sotterrano certificati di morte. Tutto avviene con la stessa routine e leggerezza con cui si muore e si ritorna in vita.
Tuttavia, tra la morte e la resurrezione, i protagonisti vengono inghiottiti dall’inferno della burocrazia. Per ottenere il riconoscimento ufficiale del decesso – da parte di un sacerdote-semidio, che nel testo originale è il capo del condominio – devono attraversare un labirinto di guardiani-pecore. In perfetto stile assurdo, nel cimitero è severamente vietato seppellire i morti. A presidiare l’ingresso ci sono creature metaforiche tratte dal folklore, come i cani Cerbero, incarnazioni della paura e della repressione.
Nel finale, in questo mondo capovolto dove vita e morte si mescolano senza soluzione di continuità, dove la fantasia si intreccia con la brutalità del reale, l’artista-padre insegna alla figlia la lezione più importante: l’unico antidoto alla morte e alla paura è la risata, l’umorismo, il gioco.