Vincitore del David di Donatello 2025 come migliore attore non protagonista per Familia in Nottefonda di Giuseppe Miale Di Mauro Francesco Di Leva si fa ancora una volta interprete di un dolore famigliare attraverso la figura di un padre in crisi con la vita. Di Nottefonda, al cinema con Cinecittà Luce, abbiamo parlato con Francesco Di Leva all’indomani della conquista del prestigioso premio.
Per la foto di copertina si ringrazia l’ufficio stampa Lorella Di Carlo e il fotografo Lorenzo Taliani

Francesco Di Leva in Nottefonda
La prima immagine di Nottefonda – quella in cui vediamo Ciro assumere una probabile sostanza oppiacea – è allo stesso tempo realistica per il modo in cui immerge il personaggio nel proprio dolore, ma anche allucinatoria nel prefigurare la dimensione del sogno con cui la storia entra in contatto. Si tratta a tutti gli effetti di una sequenza utile a stabilire i parametri entro cui si muove la tua interpretazione, sempre in bilico tra sogno e realtà, tra ciò che è dentro e fuori del personaggio.
Assolutamente sì, hai colto benissimo il nucleo di quella sequenza. In realtà più che definire il modo di essere di Ciro, il suo essere sfuggente e sempre attento nello scegliere le persone con cui si confronta – anche se poi un confronto vero non lo vuole – quella scena mi è servita per entrare nello stato d’animo del personaggio. Sapevo che quella sostanza poteva essere qualsiasi cosa, quindi non mi va nemmeno di definirla droga, anche se lo è. Come attore è stato il mezzo per capire quali erano i contorni della sua disperazione.
Per come viene presentata, ovvero mostrare gli effetti lisergici con cui il cinema racconta la tossicodipendenza direi che si tratta di una droga simbolica, di una sintesi narrativa capace di guardare dal di dentro la condizione del personaggio.
Sì, infatti Ciro non è un tossico. Lui cerca il silenzio e quella sostanza che potrebbe essere anche camomilla riesce a darglielo. Quello che abbiamo fatto è mettere Ciro in una sorta di bolla, con le sue paure e le sue fragilità tutte interiori. Lui non si vuole mostrarsi disperato perché non è un emarginato. È una persona normale che sta affrontando un momento critico della sua vita. Ciro fa l’elettricista, ha una famiglia normale, con dei valori come li abbiamo tutti, con una casa piccola ma bella. La sua famiglia era serena fino a quando un evento inaspettato cambia le cose.
Le emozioni
Nottefonda è per lo più una storia emotiva perché anche il baluginio di luci che segnala la presenza del mondo esterno altro non è che il riflesso dell’interiorità del protagonista. La storia non racconta fatti, ma stati d’animo e in particolare il dolore che attraversa la metabolizzazione del lutto.
È esattamente questo. Ciro è vittima di una perdita e per superarla ha bisogno che il tempo faccia il suo corso. Nella fase di preparazione ho parlato con amici e persone a cui sono di colpo mancati i propri cari e da loro ho capito che in questi casi è necessario consumare quel dolore con le lacrime. Bisogna farsene senza respingerlo. In un bellissimo documentario visionato nel corso delle mie ricerche una donna raccontava come dopo aver perso figlio e marito si fosse rifugiata nel crack perché quella sostanza per quaranta secondi la metteva in una condizione di assoluto silenzio impedendole di ascoltare qualsiasi cosa. A Ciro accade su per giù la stessa cosa. La ragione per cui vive di notte è proprio quella di evitare le persone e quindi di ascoltare cosa hanno da dire.
Ciro è fantasma tra fantasmi.
La notte è un altro elemento del film. Per certi versi fa paura, per altri ti fa sentire protetto. Non incontri nessuno, sei solo tu e la città. Di certo non è il luogo del delinquere perché Ciro è una persona onesta, uno che quando qualcuno gli offre dei soldi in più gli dice: “ma che mi stai offrendo le elemosina?”. Ciro è uno capace di ottenere un lavoro regolare e sa anche come mantenerlo perché è cosciente di quanto quello sia importante per cercare di ritornare alla normalità. Nel frattempo però deve fare i conti con un’oscurità che assieme al regista Giuseppe Miale Di Mauro e al direttore della fotografia Michele Attanasio abbiamo pensato di rappresentare attraverso la notte che avvolge un pezzo di città, quella a ridosso del porto in cui le luci e i rumori sono destinati a rimanere sullo sfondo.
Francesco e Mario Di Leva in Nottefonda
Il fatto che tuo figlio Mario interpreti quella di Ciro fa sorgere una paura che ti appartiene prima di tutto come genitore e poi come attore. Il tuo metodo cosa prevede in questi casi, ovvero come si fa a non farsi travolgere dai sentimenti che metti in circolo dentro di te?
Il problema vero è che, alla pari di altri attori io non mi difendo ma mi faccio dilaniare dal dolore, motivo per cui all’inizio ero un po’ scettico sulla presenza di mio figlio Mario, anche se mi piaceva moltissimo averlo con me sul set. Condividere il processo artistico con lui è stato bello ma doloroso. Ci sono stati dei momenti dove abbiamo pianto insieme tanto da dover interrompere di girare. Pensare di ritrovarmi nella condizione di Ciro mi ha fatto entrare in crisi al punto tale da sentirmi fuori luogo. In quei momenti la mancanza di parole di Ciro corrispondevano a come mi sentivo io come persona e questo perché il mio metodo prevede che il personaggio continui a esistere anche finite le riprese. Per questa ragione sul set di Nottefonda sono stato coccolato un po’ da tutti. C’era il macchinista che mi portava il caffè, la costumista che mi veniva a fare una carezza mentre aspettavo in un angolo il prossimo ciak. Tra di noi si è creata una condivisione motivata dal fatto di raccontare un dolore che prima o poi tutti siamo chiamati a vivere. Per quanto riguarda Mario la sua presenza ha portato una verità che nessuna tecnica può sostituire. Guardarlo negli occhi mi ha permesso di toccare le corde di un dolore autentico altrimenti inesprimibile.

L’interpretazione di Francesco Di Leva in Nottefonda
La tua è una interpretazione senza trucco nel senso che del tuo personaggio hai condiviso non solo la prostrazione emotiva, ma anche fisica.
Nel periodo delle riprese ho dormito e mangiato pochissimo. Dopodiché per entrare dentro il personaggio ognuno ha il suo metodo. A teatro per esempio c’è chi si riscalda, chi fa degli esercizi fisici e vocali. Alcuni stanno seduti su una sedia fumando una sigaretta all’ingresso dei camerini. Io sono uno di quelli ossessionato dal voler entrare nell’emotività e nella condizione fisica del mio personaggio. In generale questo mi porta a farmi domande sul quartiere in cui ha vissuto da bambino. Capito questo vado a vedere il posto dov’è nato e cresciuto per poi iniziare a costruire la sua condizione fisica. In questo processo creativo i costumi svolgono una parte fondamentale. Per me per esempio sono importantissime le scarpe perché da quelle parto per impostare la camminata del personaggio. A quel punto inizio a fare lunghe passeggiate per metterla a punto. Parliamo di dettagli impercettibili che però a un attore fanno sentire quando è vicino ad afferrare la parte. La camminata influenza la postura del personaggio e dunque è rivelatrice della persona che abbiamo davanti.
Quella di Ciro ce lo mostra ripiegato su se stesso come se volesse nascondersi agli occhi del mondo.
Proprio così, lui usa il cappotto per nascondersi.
In Nottefonda infatti la tua fisicità è annullata, al contrario di Familia dove invece esplode.
Eh sì, ma in Familia si trattava di un personaggio diverso. A volte la vita è davvero bizzarra perché con quei due film ho sperimentato un dolore opposto. Nel primo caso ero io a infliggerlo agli altri, nel secondo invece ne sono stato vittima.

Familia
Per Familia hai appena vinto il David di Donatello come miglior attore non protagonista. Di quel film non si può non ricordare la ferinità del tuo personaggio e dunque la paura che pervade lo spettatore ogni volta che la mdp riprendeva l’espressione del tuo viso. Come si fa a far emergere una crudeltà così inquietante come quella di Franco Celeste?
Capisco che può essere strano per un personaggio così cattivo, ma per me è stato fondamentale il piacere che avevo nel restituirne le valenze. Anche per interpretare Franco Celeste ho fatto un viaggio incredibile: ho avuto accesso a documenti e fotografie personali tra i quali gli scatti fatti nel suo ultimo giorno di vita. Sapevo che era di Secondigliano per cui conoscevo il contesto in cui era vissuto. Sapevo che mentalità c’era in quei contesti, come quella di scambiare la manipolazione affettiva per semplice gelosia. Celeste è stato un padre violento, ambiguo; incapace di distinguere i vari sentimenti per cui sapevo di dover creare un terrore familiare di origine patriarcale. Per lui era importante padroneggiare sulla sua famiglia e per farlo più che una violenza esplicita ne utilizzava una di tipo psicologico in cui anche una carezza diventa qualcosa di brutto. Con Francesco Costabile abbiamo deciso che dovessi toccare mia moglie come fosse un oggetto. Lui le palpa spesso il collo, la faccia e le labbra non per affetto, ma come per ribadire il suo possesso su di lei. Celeste era il tipo di marito capace di mettere in campo una sorta di bombardamento amoroso, – negli Stati Uniti lo chiamano love bomber – una strategia manipolatoria nella quale il partner ricopre di attenzione e d’ammirazione l’altra persona per poterla controllare e farla diventare la sua vittima. Nei dibattiti con il pubblico moltissimi giovani hanno percepito questi gesti come gesti d’amore e di generosità e non come un segnale di cui stare attenti. Familia ha fatto parlare molto di sé anche perché ha svelato questo fraintendimento dandogli il nome che merita.
La realtà di Nest
L’arte a Napoli non può essere mai disgiunta dai problemi della città. Se Teatri Uniti ha fatto da apripista a questo tipo di coscienza il progetto Nest dal quale è nato Nottefonda dimostra come questa esigenza sia ancora attuale.
Il Nest è un progetto collettivo che investe una serie di artisti napoletani tra cui Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino e Giuseppe Miale di Mauro, ovvero gli attori e il regista di Nottefonda. Chi ci ha preceduto ha creato un esempio eccellente al quale non abbiamo mai nascosto di ispirarci pur preservando la nostra identità. Per Napoli quel tipo di resistenza e quei luoghi sono serviti moltissimo e continuano a servire. Da parte mia sono testimone di alcuni cambiamenti nella mia città ma rimango consapevole che Napoli sarà sempre una città rumorosa e piena di problemi come altre metropoli. Con il Nest abbiamo voluto creare un luogo dove le persone possono venire per fruire di cose belle, di cose che possono far crescere l’animo umano. Adesso abbiamo un gruppo di 160 ragazzi e i più grandi hanno le chiavi del teatro per cui anche alle 23 possono aprirlo e proiettare un film. La cosa bella è che ognuno di loro ne porta sempre altri senza chiedere il permesso a nessuno. Io a volte vado a vedere gli spettacoli: ovviamente sto là e mi occupo del parcheggio mentre Adriano sta alla cassa e Giuseppe al bar insieme ad altri ragazzi. Nel frattempo abbiamo creato un’altra associazione indipendente da Nest per fare crescere questi ragazzi da soli in maniera che imparino a gestirsi autonomamente. L’importante non è legarli a noi ma far si che ogni ragazzo possa venire al Nest, fare le riunioni per organizzare gli spettacoli e poi vederli gratis.
Parliamo degli attori che consideri un riferimento.
Toni Servillo è stato uno di quelli che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui lavorare. Così è successo anche con Pierfrancesco Favino e con Elio Germano. Elio che ha la mia età l’ho incontrato l’altro giorno e ho avuto modo di manifestargli la mia ammirazione per come riesce a sparire dietro il personaggio. Benicio Del Toro e Sean Penn alla pari degli altri per me sono più che semplici riferimenti. Io questi attori voglio tenermeli vicini nella speranza di poterli incontrare e confrontarmi con loro. Non avrei nessun problema a chiamarli qualora un giorno avessi il sentore di non riuscire a comprendere il mio personaggio. I loro consigli sarebbero benvenuti.