Un film sulla malattia. Ma prima, sulla paura di nominarla. Ma cosa ci frena più del dolore stesso? Il bisogno di proteggerlo? Oppure la paura che, una volta detto, diventi reale?
Antonello Scarpelli, presenta dopo la sua opera Tarda Estate, Così com’è presentato in anteprima mondiale al Bellaria Film Festival (Concorso Gabbiano). Racconta la storia di Emilia, donna calabrese di mezza età che parte con il marito – appena colpito dall’Alzheimer – per raggiungere il figlio (Antonello Scarpelli) emigrato in Germania. Un viaggio lineare solo sulla carta. Perché in realtà è una fuga dalla parola giusta, quella che non si pronuncia mai.
“Stiamo bene. Tutto a posto.”
Ma quando le cose non lo sono, continuare a dirlo a chi serve veramente?
Scarpelli firma regia, sceneggiatura e interpretazione, e gira nei luoghi che conosce: Celico, la sua terra d’origine, e la Germania dove ha studiato. E l’opera si muove proprio tra queste due polarità: vicinanza e distanza, presenza e assenza, memoria e negazione.
Il segreto della malattia
Dunque come si elabora una notizia che non si riesce a dire? Attraverso il narrare i ricordi, descrivere la giornata, chiedere di amici in comune, tutti piccoli dettagli quotidiani che sviano dalla ferita centrale. L’evitamento psicologico è un meccanismo reale: raccontare alternative serve a nascondere ciò che temiamo di più. Raccontandolo, diverrebbe reale. Mentre nasconderlo, risulterebbe una protezione. Rimandare sembra, alla fine, sempre la scelta più facile
Risulta spesso la scelta più consona, tenere all’oscuro il prossimo: spesso è la persona malata stessa a diventare il soggetto ignaro e in The Farewell di Lulu Wang, accade proprio questo. Qui è il contrario: chi sa, tace. La verità non è negata, è semplicemente non condivisa. Ma cosa ci porta a non voler dividere il dolore con le persone che amiamo? La risposta non è mai una sola. Ma è in questa tensione che si muove il film.

Una memoria analogica per un presente fratturato
Il film si apre con immagini datate: 30 agosto 2001. Una vecchia videocamera, un tempo lento, condiviso, caldo. Oggi, tutto è più immediato ma meno reale. Anche la malattia. Anche il legame. Si arriva in casa, ma nessuno è lì. Si parla tutti i giorni, ma nessuno conosce davvero l’altro. Il passato analogico brucia, mentre il presente digitale scivola.
Il viaggio dei genitori verso il figlio è reale. Treni, aeroporti, macchina. Ma il figlio non è lì. Li aspetta a distanza, invia gli amici al posto suo, restando fuori campo. Li accoglie in una casa dove non c’è. È solo logistica, oppure rappresenta un confine emotivo? I genitori vengono guidati da uno schermo, da una barriera, creando un’alienazione dei rapporti umani. In cui entrambe le parti vorrebbero comunicare il vero, ma non riescono, rendendosi conto che con l’avanzare del tempo il muro creatosi diventa sempre più difficile da varcare.
Il film non ha paura del silenzio. Stefania Bona (fotografia) e Pierpaolo Filomeno (montaggio) costruiscono una grammatica visiva che accompagna senza spiegare. I paesaggi non illustrano, bensì raccontano assenze.
Lingue madri, lingue figlie
Nel film si parlano tre lingue: italiano, tedesco ed infine inglese. Non è un vezzo, è un tratto generazionale e sociale. In una famiglia in parte migrante, anche il modo di esprimersi cambia. Le parole diventano più pensate, le frasi si spezzano, la comunicazione si complica. È un elemento che richiama opere come Ritorno a Seoul di Davy Chou: il linguaggio non è mai neutro, anzi, spesso diventa un ulteriore ostacolo alla comprensione emotiva.
La ragazza che accompagna Antonello per poter comunicare con i genitori parla in inglese con la madre, la quale a sua volta traduce al marito quanto compreso. Dunque in Così com’è, le lingue riflettono la distanza. Una distanza già incompresa.

“In che parte della città ci troviamo?”
È Emilia a dirlo, e non è una semplice domanda geografica. È un modo per dichiarare spaesamento. In che parte della nostra vita ci troviamo quando non ci riconosciamo più nei luoghi, nelle relazioni, nelle scelte? È in questa frase che il film trova il suo respiro più profondo: i personaggi non si perdono, si lasciano scivolare, ognuno nel proprio isolamento. Antonello sceglie per i genitori un posto che, secondo il padre, è periferico, isolato, senza che essi mostrino alcuna obbiezione.
Così com’è non è solo un titolo, è un atto di resa apparente. Perché accettare la realtà “così com’è” richiede una forza che spesso non abbiamo, o che arriva troppo tardi. Dopo Tarda Estate, Antonello Scarpelli torna con un film che non vuole spiegare, ma ascoltare. Così com’è non mette ordine, non risolve, bensì si limita a restare accanto ai personaggi, anche quando sbagliano, anche quando tacciono. E forse è proprio lì, nell’imperfezione umana, che il cinema diventa necessario, d’altronde la perfezione umana non esiste.