Mes phantômes arméniens (My Armenian Phantoms) di Tamara Stepanyan inizia con una morte: quella di suo padre, il celebre attore armeno Vigen Stepanyan. Ma da quel momento di dolore personale, il film si dispiega in qualcosa di più ampio, enigmatico e silenziosamente profondo.
Diventa un requiem non solo per un genitore, ma per un’intera generazione di artisti armeni e per l’eredità culturale che hanno lasciato. Utilizzando il cinema sia come mezzo espressivo che come metafora, Stepanyan ricostruisce un dialogo con il padre scomparso attraverso ricordi, materiale d’archivio e frammenti evocativi della storia del cinema armeno sovietico.
Intrecciare la memoria personale con la storia nazionale
Il documentario trova la sua forza nel modo in cui fonde i ricordi personali con il più ampio, spesso trascurato, patrimonio del cinema armeno. Stepanyan utilizza fotografie di famiglia, video amatoriali e annotazioni di diario, insieme a spezzoni di classici del cinema armeno – alcuni poco noti, altri quasi dimenticati – per costruire un collage cinematografico.
Non si limita a piangere il padre; lo resuscita attraverso immagini e suoni, ricollocando la sua vita all’interno del più ampio canone culturale che lui ha contribuito a plasmare. In questo modo, evidenzia la relazione simbiotica tra lutto privato e memoria collettiva.
Un linguaggio cinematografico di frammentazione
Stilisticamente, Mes phantômes arméniens si oppone alla linearità. Adotta invece un ritmo frammentato e poetico che rispecchia l’esperienza stessa del ricordo: passato e presente si fondono. I luoghi – case, teatri, set cinematografici – appaiono spettrali, mai del tutto di questo mondo.
L’estetica del film è profondamente influenzata dalle texture e dalle tonalità del cinema armeno del XX secolo, e porta con sé una discreta eco dell’audacia visiva di Parajanov e dei montaggi ellittici di Peleshyan. Ma la voce di Stepanyan è tutta sua: dolce, intuitiva, ossessionata dal passato ma guidata dal desiderio di darne un senso agli echi.
Unarchive Film Festival: un palcoscenico adatto
L’inclusione del film nell’edizione 2025 dell’Unarchive Film Festival di Roma appare particolarmente appropriata. Questo festival, dedicato al restauro e alla riscoperta di voci cinematografiche trascurate, si allinea perfettamente con la missione di Stepanyan.
Mes phantômes arméniens non si limita a utilizzare gli archivi: li interroga, li anima, li trasforma in elementi narrativi vivi e vitali. La sua presenza nel programma del festival riflette non solo la sua coerenza tematica, ma anche il suo ruolo di esempio su come il documentario possa penetrare nei regni della memoria, del mito e della malinconia senza perdere chiarezza o risonanza emotiva.
Affinità letteraria e cinematografica
Nella sua portata filosofica e stilistica, il documentario richiama i saggi meditativi di Chris Marker, in particolare Sans Soleil. Come Marker, Stepanyan è interessata a come il personale si intersechi con lo storico, a come il filmato possa essere manipolato in una forma di memoria soggettiva.
Ma il suo lavoro riecheggia anche il fascino di Marcel Proust per la memoria involontaria e per il modo in cui piccoli dettagli sensoriali possono svelare interi mondi interiori. Questo è un film intriso di letteratura tanto quanto di cinema, un film che comprende come la narrazione, in tutte le sue forme, sia in definitiva un atto di conservazione.
Una fantasticheria di perdita ed eredità
Più che un semplice documentario, Mes phantômes arméniens è una fantasticheria spirituale, che osa esprimere il lutto ad alta voce, cercare un significato in vecchie bobine e fotografie sbiadite.
Si interroga su cosa facciamo della memoria, cosa ereditiamo oltre il sangue e come il cinema – con la sua straordinaria capacità di preservare e distorcere – possa fungere sia da lapide che da resurrezione. Attraverso le sue texture stratificate e la sua voce gentile, il film diventa un veicolo di lutto e di guarigione, ribadendo che ricordando gli altri ci avviciniamo a noi stessi.
Il passato proiettato
Tamara Stepanyan ha creato qualcosa di silenziosamente monumentale in Mes phantômes arméniens. È un’opera sulla memoria, sulla famiglia, sul cinema e sulla nazione, ma soprattutto è un film che rende omaggio ai fantasmi che ci plasmano.
Aprendo il suo archivio e rianimandone i contenuti con amore e intelletto, offre agli spettatori un invito a riflettere sulle proprie radici, sulle proprie perdite e sui mezzi attraverso cui diamo un senso a entrambe. In questa elegia splendidamente costruita, i fantasmi non vengono solo ricordati, ma anche ascoltati.