“Nemmeno io sento più niente.”
Una frase che brucia. Non detta da un uomo, né da un’aggressione fisica. Ma sussurrata tra due ragazze, in un bagno, con un fiore buttato nel cesso. Un gesto semplice, ma intriso di quella ruggine che dà il titolo al cortometraggio di Bruno Barbaro. Perché Ruggine non parla solo di violenza, ma della sua sedimentazione. Di ciò che resta, quando tutto il resto è stato portato via. Un cortometraggio selezionato tra oltre 500 opere al Festival Internazionale Tulipani di Seta Nera. Si tratta di una delle realtà più attente a ciò che il cinema può dire riguardo al sociale, sull’inclusione e sull’essere umano che resta ai margini.
Tre volti, una sola eco
Chiara, Alessandra, Luce (Carlotta Ndoye, Anna Baggetta, Marcella Mesiti). Tre nomi femminili, tre identità distinte, tre storie che si aprono come crepe autonome. Eppure, a poco a poco, ci si accorge che quei solchi fanno parte dello stesso terreno. Ruggine è un cortometraggio prodotto in Calabria dalla Scuola Cinematografica della Calabria – Lele Nucera , ma la sua geografia emotiva è universale. Parla di una ferita che non conosce confini.
Il regista e interprete Bruno Barbaro non costruisce una narrazione dal punto di vista dell’osservatore esterno, ma dall’interno stesso della cicatrice. Lo dice chiaramente in un video presentazione:
“Nasce non da un’idea, ma da un’esperienza personale. Che non avrei mai voluto vivere.”
E questo cambia tutto. La camera non guarda, ma ricorda. Non giudica, bensì testimonia.

L’odore della memoria
In una delle sequenze più dense del film, una delle ragazze racconta del profumo dei ciclamini.
“Si sentiva dalla strada”
dice, mentre la scena si carica di una tensione stranamente olfattiva. Quel profumo non è solo ricordo: è trappola. È l’inizio della violenza, mimetizzata nella quotidianità. E quando l’altra ragazza le dice:
“non sento niente”
quel vuoto olfattivo diventa il simbolo dell’anestesia emotiva. Una perdita di sensibilità che accomuna chi ha subito troppo. Ruggine non si limita a mettere in scena la violenza. La interiorizza, la analizza nel tempo della sua metabolizzazione.
Dire per non morire
Paola Cortellesi ha ricordato al pubblico italiano, con C’è ancora domani, che la violenza di genere non è retaggio del passato, ma rumore di fondo del presente. Lo ha fatto con una cifra stilistica diversa: l’utilizzo del bianco e nero, la commedia, l’effetto controluce della memoria collettiva, ma con la stessa urgenza narrativa. Anche Ruggine, pur nella forma breve del cortometraggio, si inserisce in questa urgenza: quella di parlare, di dire, di rompere il silenzio. Perché quando la violenza tace, sopravvive.

La ruggine non è polvere
La ruggine, per definizione, è ossidazione. È ciò che resta quando il tempo passa e l’aria cambia. È una ferita che non sanguina più, ma che continua a mangiare il metallo. Così è la violenza raccontata da Bruno Barbaro: non visibile, ma viva. Non gridata, ma irrisolta.
Forse non è un caso che si parli di ruggine e non di ferita. La ferita può guarire, può chiudersi. Ma la ruggine resta, si espande, corrode lentamente. È per questo che risulta necessario continuare a parlarne. Perché se non si può cancellare ciò che è stato, si può almeno impedirgli di continuare la vita che l’uomo ha scelto per la donna.