
Anno: 2013
Durata: 99′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Portogallo
Regia: Vítor Gonçalves
Quell’immobilismo che è divenire
Vítor Gonçalves, un punto di riferimento del cinema portoghese contemporaneo, docente alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona, dopo vent’anni da Midnight (1988) e da A Girl In Summer (1986), con A Vida Invisível torna dietro la macchina da presa imbastendo una sfida interessante ed ardua, dentro la quale cade più volte, pur rimanendo flebilmente attaccato ad uno spirito, ad un’anima. L’anima di se stesso, l’anima del suo paese.
Hugo (Filipe Duarte) è un impiegato ministeriale isolato dalla vita: già dentro un irreale – un altrove – da cui viene irrimediabilmente risucchiato. L’unico ‘mondo’ capace di riempire un’essenza che lui stesso non riesce ad afferrare. Specchia se stesso nel suo ‘alter ego’, Antonio (omaggio, nel nome, da parte di Gonçalves, al suo amico e mentore António Reis, compianto maestro del cinema portoghese), unico e reale legame umano da cui indirettamente riceve un minimo confronto, sul quale fa cadere insicurezze, attraverso il quale decifra il proprio modo di essere (“Lui non ha capito, lui non mi conosce”). Antonio (João Perry) e la sua parallela solitudine (più viva e consapevole di quella di Hugo) stanno per subire l’ennesima operazione chirurgica, ben conscio che la fine è prossima. I super 8 di Antonio (di mare, di coste, di montagne, stati visivi di stacco dall’ordinaria quotidianità) diventano il non detto tra i due, quel lascito ‘criptico’ dalla cui visione Hugo avvia un percorso a ritroso di pensiero e nel pensiero, dove viene messa a nudo la sua condizione di inazione. Il fuoricampo vocale e la fisicità del nostro protagonista riempiono i luoghi che la macchina da presa attraversa in una fusione tra materia e spirito non perfettamente riuscita. È più la materia, sia solida che liquida, a dare sostanza all’altrove. Le stanze della grande casa di Hugo, quasi sempre in penombra, gli esterni degli edifici storici mostrati come un’apparizione negli affondi di prospettiva lenti, sinuosi. La Piazza del Commercio di Lisbona, fissata nella metamorfosi ricostruttiva di simbolo metafisico che abbraccia-include la sospensione che la contiene. E il mare… Stordisce, per quanto vivido sia quell’invisibile che mostra, dentro un azzurro ipnotico che pare gettarsi in un orizzonte di nulla. I quesiti irrisolti e le riflessioni che Hugo si pone intorno a se stesso alla ricerca di quel qualcosa che Antonio voleva dirgli, i confronti sterili con l’ego opposto di un collega, fantasma di un reale ferocemente amaro sulle vie di fuga che Hugo si dà, e l’amore incarnato nella figura di Adriana (Maria João Pinho), complice nello stato di smarrimento esistenziale, di indecisione (“Ho fatto e pensato male in questi mesi”), incapace però di condividere, pur amandolo, quell’alienazione dal mondo che Hugo ha abbracciato… quel legame con l’immanenza che gli parla, gli sussurra attraverso l’esterno percepito dalle fessure delle serrande, nel buio in cui convive, dentro la solitudine del suo lavoro… Una relazione con un immutabile che fa di Hugo e della realtà che lo circonda un fantasma di un perenne immobilismo, esso stesso divenire.
Peccato che proprio sulle atmosfere umane il regista inciampi in un’affettazione (gli attori sono spesso inadatti ad espandere in modo credibile stati d’animo, a fondersi con la rispettiva voce fuori campo), in una forzatura di atmosfera che dilata troppo i tempi emotivi, sgonfiandone parecchio potenziale interiore. Pure i tempi filmici di questo viaggio di coscienza sono eccessivi: la morte di Antonio fa ripartire il film in una ‘rivelazione’ per Hugo, che arriva quando si è già logorati da uno stato visivo e narrativo troppo disteso, compiendo un ulteriore giro di boa prima di arrivare alla chiusura del cerchio.
Maria Cera