Nella giornata del 29 aprile abbiamo avuto modo di assistere a una open lectio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, inserita all’interno del programma della laurea magistrale “The Art and Industry of Narration” e del “Master in Screenwriting and Production”. La lectio ha avuto come protagonista una figura a dir poco eccezionale: Meg LeFauve, sceneggiatrice dei due fortunati capitoli di Inside Out.
Chi è Meg LeFauve
Meg LeFauve ha firmato la sceneggiatura di Inside Out (2015) col regista Pete Docter e Josh Cooley mentre, per Inside Out 2, nel 2024 (trovate qui la nostra recensione) ha curato sia il soggetto col regista Kelsey Mann che la sceneggiatura con Dave Holstein, costruendo una saga che racconta la crescita e le relazioni di Riley Andersen, alle prese con le sue emozioni (Rabbia, Disgusto, Gioia, Paura, Tristezza alle quali, dal secondo capitolo, si aggiungono Ansia, Invidia, Imbarazzo, Ennui e Nostalgia). LeFauve, classe 1969 e originaria dell’Ohio, ha iniziato la sua carriera cinematografica come presidente e produttrice della Egg Pictures, la casa di produzione cinematografica di Jodie Foster, realizzando in quel periodo il lungometraggio The Dangerous Lives of Altar Boys. È stata mentore del laboratorio di scrittura di Meryl Streep e ha successivamente lavorato ai film Il viaggio di Arlo (2015), Captain Marvel (2019) e Il drago di mio padre (2022).
The Long Journey from Inside Out to Inside Out 2
Dopo un’introduzione a cura del professor Armando Fumagalli e dell’assessore alla cultura di Regione Lombardia Francesca Caruso, è iniziata una lectio di circa un’ora e mezza dove LeFauve ha parlato del processo creativo dietro i due fortunati lungometraggi d’animazione, partendo dalla pipeline di produzione che avviene in casa Pixar per i suoi prodotti:
«I nostri artisti creano dei concept e subito dopo degli storyboard che servono come punto di partenza. L’intero film viene messo su storyboard dall’inizio alla fine e, una volta finito, vengono registrate le voci dei personaggi e poi vengono realizzate le animazioni. Questo processo va avanti fino ad arrivare a degli screening interni dove il film viene mostrato ai dirigenti. Quello è uno dei momenti peggiori, quando è toccato a Inside Out (1) volevo morire. Finita la proiezione c’è un momento di silenzio, dopodiché si entra in una stanza dove i direttori di Pixar “distruggono” il film pezzo dopo pezzo. Quando sono entrata io dopo lo screening, ho visto gente adulta che piangeva. E parliamo di persone che lavoravano in Pixar da 30 anni».

Da sinistra: Meg LeFauve, Francesca Caruso e Armando Fumagalli. Photo Credit: Università Cattolica
Come anche il professor Fumagalli ha ribadito nella sua presentazione all’inizio dell’evento, dietro ogni successo c’è un continuo lavoro, fatto di tante riscritture. Pixar ha fatto di questo il suo mantra, come afferma l’ex presidente Ed Catmull nel libro Creativity Inc., dove espone il motto dello studio “Be wrong as fast as you can”, che incita a una continua e rapida condivisione di idee e visioni per arrivare il prima possibile a quella migliore:
«C’è una sola grande regola (in Pixar): questa storia è davvero la migliore? Fra tutte le storie che abbiamo sul tavolo, questa è la migliore? Il processo di scrittura in Pixar è uno di iterazione, la storia viene riscritta più volte, molto spesso ritornando persino al nucleo di partenza dell’idea e riscrivendolo da zero, anche nella sua scena migliore. Un giorno durante uno dei meeting chiesero “Ma perché siamo dentro la sua mente?” e io risposi “Non osare!”».
Nel primo capitolo, LeFauve è subentrata quando lo studio aveva già avviato la produzione del film e il concept di partenza, seppur a uno stadio embrionale, era delineato, ma mancava ancora un vero e proprio scheletro per la storia:
«L’idea per il primo film è arrivata da Pete Docter ed era basata su sua figlia. Da piccola lei era sempre felice, sorrideva di continuo e poi, quando ha raggiunto gli 11 anni, è cambiata, è diventato silenziosa. Pete, come genitore, si è chiesto “Cos’è successo alla gioia di mia figlia? Voglio entrare nella sua testa e scoprirlo”. Ma la storia ancora non c’era, quindi ne ha scritto diverse versioni e quando io subentrai lui aveva già delineato sia le emozioni che le isole della mente di Riley, ma bisognava andare ancora più a fondo. Lui quindi è il padre geniale del mondo, mentre per il secondo film tutto è partito da un’idea del secondo regista riguardo l’ansia. Parte sempre tutto dalla leadership e dalla visione dei registi, ma deve essere qualcosa che io possa capire a livello emotivo autenticamente, per poter mettere me stessa in ciò che scrivo».
Riguardo l’apporto autobiografico presente nel film, la sceneggiatrice ha affermato di aver messo molto di sé stessa, in particolare nel rapporto genitori-figli e nella risposta dei primi alla tristezza nei secondi:
«Quando i bambini sono tristi, la tendenza dei genitori è quella di incitarli ad essere sempre felici, ma è sbagliato, devi stare con tuo figlio nella tristezza, devi fermarti nello sconforto del fatto che sia triste e accettare questa cosa per permettergli di superarlo, perché non sa cosa gli sta succedendo. Molto della ricerca che abbiamo fatto riguardava questo. Per esempio, quando Bing Bong perde il suo carrello, Gioia cerca di rallegrarlo e distrarlo col suo approccio iperpositivo, come un genitore che incita il proprio figlio a essere sempre felice, ma alla scuola dell’infanzia coi nostri figli ci hanno detto che è sbagliato e che bisogna farli sfogare, osservarli mentre passano dalla rabbia alla tristezza, così da permettere al corpo di rilasciare questi sentimenti negativi. Se fermi il processo, il corpo imprime una spiacevole memoria di cose che non sono state processate adeguatamente che rimangono e si accumulano. Il modus operandi di Tristezza nella scena del carro Bing Bong è letteralmente quello che ho imparato dalla scuola dell’infanzia su cosa dovremmo fare».
Proprio a causa del suo atteggiamento iperpositivo sembra che Gioia, nelle prime stesure della sceneggiatura, non fosse proprio apprezzata da tutto lo studio ed è stato infatti il personaggio sul quale sono stati effettuati più cambiamenti durante la scrittura:
«John Lasseter mi chiamò e disse “A nessuno piace Gioia”. Ed effettivamente, a nessuno piacciono le persone sempre positive e felici, trattandosi di figure poco realistiche. Per risolvere questo problema ho deciso di renderla e mostrarla vulnerabile, come nella scena in cui assiste al crollo delle isole: volevo che vedesse parti della sua bambina venire distrutte e realizzare che fosse colpa sua. Il film ha due poli: l’inizio, dove Gioia cerca continuamente di tagliare fuori Tristezza dal quartier generale, e il finale, dove succede l’esatto contrario. In questi casi, la chiave vincente è sempre quella di far sì che nel finale il protagonista compia qualcosa che mai, in un milione di anni, ti saresti aspettato che avrebbe fatto».

Nella risoluzione del film, Gioia lascia che Tristezza prenda il controllo della console di Riley, facendo così sfogare la ragazza coi genitori riguardo la sua nostalgia di casa. La frase pronunciata da Riley in quel momento (Volete che io sia felice, ma non lo sono”) arriva dal vissuto della sceneggiatrice, la quale si è trovata a 11 anni in un’esperienza molto simile a quella della protagonista ma non è riuscita ad esternare quel disagio. Chiudendo il discorso sul primo capitolo, LeFauve ha concluso con una metafora molto suggestiva riguardo il processo di scrittura e riscrittura di un film:
Credo che attingere dalla propria creatività sia come prendere l’acqua da un pozzo con un secchio. Ogni volta che hai un’idea è come se tirassi su il secchio e ci fosse una goccia. Se rimani attaccato alla tua idea, avrai sempre solo una goccia, ma se ti apri e ti esponi a feedback altrui tirerai su tante gocce fino ad avere un intero oceano.
La lectio si è poi spostata su Inside Out 2, film che ha visto il passaggio di testimone di regia da Pete Docter a Kelsey Mann, col quale Meg LeFauve aveva collaborato nel frattempo ne Il Viaggio di Arlo:
«Kelsey Mann mi chiamò e mi disse che aveva un’idea per Inside Out 2. Di solito i sequel vengono fatti principalmente per motivazioni commerciali, ma in Pixar deve essere sempre l’idea a fare da traino. In questo caso l’idea era appunto quella di avere Ansia che prendesse il possesso di Riley e la dirottasse. Per rendere vera questa idea, abbiamo dovuto fare una ricerca e quella più autentica ed importante è sempre la ricerca in sé stessi. La soluzione è stata quella di visualizzare Ansia non come un villain ma come un personaggio buono e che, come si vede nel finale, capisse che doveva sedersi, rilassarsi e lasciar andare Riley. I sequel sono sempre più difficili da fare rispetto ai primi capitoli. Avendo già lavorato al primo film, fortunatamente avevo chiare le regole del mondo che avevamo creato e di conseguenza di cosa potevamo e non potevamo fare. Il punto più difficile è stato quello di creare nuove emozioni, spiegare perché fossero arrivate proprio in quel momento e cosa avessero fatto durante gli eventi del primo film».
La sceneggiatrice ha poi mostrato alcuni design e concept preparatori delle emozioni, sia di quelle viste nei film in versione definitiva sia di (molte) altre tagliate. Fra queste ce n’era una che era stata pensata come il villain della storia:
«Ansia ha avuto diverse riscritture e inizialmente non era neanche la vera antagonista. Nelle prime stesure, in realtà, lavorava per Vergogna che, assieme a Colpa, era il villain principale della storia. Nel suo design Colpa portava con sé molti bagagli ingombranti ed essendo un’emozione molto negativa è stata rimossa, ma il dettaglio dei bagagli è stato “passato” ad Ansia. Se Colpa era cattiva, Vergogna era molto peggio, perché il pensiero dietro un’emozione come la vergogna è “io sono male, io non vado bene”. In questa versione, Vergogna compariva nel terzo atto e Gioia scopriva che stava lavorando e tramando di nascosto per modificare il sistema di credenze di Riley, per questo motivo avevamo anche deciso di renderla una mutaforma. Pixar pensava che fosse troppo cupa per il film, perciò abbiamo tagliato Vergogna e ci siamo focalizzati su Ansia e proprio per questo abbiamo deciso di avere Riley tredicenne nel secondo film, perché è il momento della vita in cui quell’emozione arriva».

Una delle scene portate come esempio da LeFauve durante la lectio è stata quella in cui Ansia prende il possesso del reparto dell’immaginazione, costringendo gli addetti a creare scenari da incubo per spronare Riley per il giorno della partita. L’idea è arrivata proprio dalla sceneggiatrice, che ha affermato di aver sempre visualizzato così l’effetto che l’emozione ha su di lei:
Anche per questo motivo, il finale è stato riscritto più volte. Per chi vive l’ansia sulla propria pelle, sembra che si tratti sempre di una questione di vita o morte. Ansia non è cattiva, è lì per aiutarti, così come Gioia, il problema è che non possono stare insieme: se c’è una, l’altra non può esserci contemporaneamente.
Uno dei passaggi chiave del secondo film è stato il rendere Riley adolescente. LeFauve ha parlato di fragilità e difficoltà nell’adolescenza e della necessità di avere un contesto dove la protagonista non potesse usufruire del telefono:
«In Inside Out 2 abbiamo parlato molto del perfezionismo. Gli adolescenti, specialmente le ragazze, hanno bisogno di essere perfetti più che felici e ciò agisce come un istinto di sopravvivenza, ma ovviamente essere perfetti è impossibile. A quell’età il cervello inizia a entrare in uno stato di consapevolezza di sé, sente che le persone ci giudicano e valutano chi siamo. Si tratta di un momento delicato perché i tuoi valori e chi sei veramente iniziano a oscillare e vanno verso gli altri e quando cresci, fortunatamente, ritornano dove dovrebbero essere, dentro di te, man mano che il cervello si sviluppa. Abbiamo cercato di mostrare cosa volesse dire essere un teenager, abbiamo dovuto creare uno scenario narrativo dove fosse realistico che non ci fossero telefoni, perché è davvero noioso vedere qualcosa che succede sui social media. Per questo abbiamo scelto di ambientare la storia al campo estivo».
L’intervento si è concluso con un commento della sceneggiatrice riguardo un elemento del secondo film, secondo lei non così riconosciuto o compreso come avrebbe voluto, ovvero il sistema di credenza di Riley:
«Credo che l’idea più profonda del secondo film, della quale nessuno sta parlando molto perché Ansia si prende la maggior parte del credito, essendo estremamente interessante, sia il sistema di credenze. Perché questo sistema comunica che quello che tu sei parte da ciò che tu credi di essere e queste credenze, a loro volta, partono principalmente dai ricordi. Perciò bisogna chiedersi: è veramente così? Faccio un esempio semplice: magari pensi di non essere bravo/a in matematica. Sei davvero non molto bravo/a in matematica oppure hai avuto un solo ricordo negativo legato a un brutto voto in quella materia, che ha portato a una forte delusione da parte dei tuoi genitori e da quel ricordo è poi nata la credenza “Non sono bravo in matematica?”. Questa è una credenza semplice, ma ce ne sono molte altre più complesse. I nostri cervelli lavorano tramite le credenze, ma noi abbiamo il potere di chiederci se la nostra visione di noi stessi sia autenticamente il nostro essere o se si tratta di qualcosa che qualcuno ha detto di noi. Si tratta di un’idea molto profonda».
Sulle domande riguardo un possibile terzo capitolo, LeFauve ha affermato che al momento sta lavorando ad altri progetti ma che, qualora Inside Out 3 dovesse andare in produzione, attenderebbe ansiosamente la chiamata di Pixar.
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