Protagonista de L’arte della Gioia dal 28 febbraio in esclusiva su Sky, Tecla Insolia interpreta il ruolo di Bianca in L’Albero, esordio alla regia di Sara Petraglia. La presentazione al Sudestival è stata l’occasione per parlare del film e della capacità dell’arte di empatizzare con mondi sconosciuti.
Tecla Insolia prima de L’albero

Esordire impersonando Nada ne La bambina che non voleva cantare equivaleva a interpretare un personaggio a te affine per età anagrafica e similitudini artistiche. Allo stesso tempo lavorare su di lei ti ha dato la possibilità di esplorare un punto di vista alternativo su un argomento che conosci bene essendoti esibita anche tu sul palco del Festival di Sanremo.
La bambina che non voleva cantare era un film per la tv girato con una persona speciale come Costanza Quatriglio. Grazie a lei farlo si è rivelata un’esperienza molto bella. All’epoca avevo sedici anni, ovvero la stessa età del personaggio raccontato nel libro autobiografico che ha ispirato il film. Questo mi ha offerto l’occasione perfetta per far coincidere le mie due passioni, il canto e la recitazione. Dopo quello ho avuto la fortuna di girare uno dietro l’altro L’arte della gioia, Familia e L’Albero e dunque di interpretare personaggi molto diversi, il che non era scontato. L’unica esperienza cinematografica prima di quel film erano stati i sei mesi passati sul set di Vite in fuga, una serie televisiva girata in Sicilia. Lavorare lì è stato molto formativo, ma non al punto di sentirmi consapevole e padrona della materia come può esserlo un’attrice di lungo corso. C’è da dire che fin da piccola sono sempre stata una persona abbastanza responsabile o comunque molto indirizzata sulle cose che volevo fare. Nel senso che il percorso di studi non è stato esente da sacrifici che però ho affrontato sapendo di investire il mio tempo in quello che avrei voluto fare tutta la vita.

Ho intervistato altre attrici provenienti da esperienze artistiche diverse e anche a te chiedo in che modo l’una ha aiutato l’altra. La prima cosa a cui penso è il rigore del processo creativo, necessario tanto nel canto che nella recitazione.
Sicuramente rigore e disciplina sono le parole che hanno contraddistinto un’adolescenza passata a fare concorsi in giro per l’Italia per poi arrivare a cantare sul palco di Sanremo e a girare un film da protagonista. Questo per dire che si tratta di due attitudini presenti in entrambe le discipline. Tieni conto che ho iniziato a studiare canto a cinque anni e recitazione a nove e fin da subito ad accomunare queste due passioni è stata la possibilità di esprimere ciò che in altri modi non riuscivo a tirare fuori. Penso che sia stato questo il motivo principale che mi ha spinto a continuare anche quando, ancora piccola, non mi sentivo brava. Quando poi si è trattato di passare dalla passione al lavoro ho trovato delle differenze perché in un caso mi sono ritrovata più incastrata, in un altro molto più libera.
Musica e cinema
Seppur con le dovute differenze, anche nel cinema, come nella musica, sei stata chiamata a dare voce ai sentimenti di un personaggio. In questo senso l’abitudine a sincronizzare il timbro vocale con i moti dell’animo è un’altra caratteristica che accompagna le tue performance, canore e cinematografiche.
Per quanto riguarda la musicalità nella recitazione penso che la cosa più importante risieda nell’ascolto. Da bambina sentire ogni settimana qualcosa di nuovo per poi cercare di rifarlo mi ha predisposto ad accordarmi con chi mi sta di fronte. Nel tempo mi sono resa conto che per me è qualcosa di essenziale proprio perché i film non si fanno da soli, ma vivono delle parole e del silenzio che si producono nel rapporto con gli altri. Quindi, per me, più che la musicalità, a essere determinante in entrambi i mestieri è stato ed è il tono di voce che nel corso degli anni ho sempre più modulato per arrivare a farne il trait d’union con la voce e i sentimenti dell’attrice o dell’attore con cui sto lavorando e ancora per rendere al meglio ciò che mi chiede il regista.
D’altronde un po’ come ti succede davanti alla mdp anche sul palco del Festival di Sanremo ti sei trovata a interpretare un testo scritto attraverso l’uso di voce e corpo.
È assolutamente così. Fin da bambina ho sempre scelto di cantare canzoni che mi emozionavano. Non sono stata mai un asso della tecnica virtuosa. Per me ciò che conta è l’empatia perché quello che stai facendo è un esercizio di immedesimazione in cui utilizzi corpo, voce, memoria e tecnica per dare carne e anima a qualcosa che poi rimetti al giudizio degli altri.
Negli appunti buttati giù per questa intervista ti avevo definito un’attrice emozionale per sottolineare la tua capacità di calarti nelle emozioni dei personaggi. Chi ti guarda se ne può accorgere dal tono della voce, ma anche dalla diversa lucidità degli occhi.
Per me è molto importante essere mossa dalle cose che faccio: le devo sentire altrimenti è solo un esercizio di tecnica. In questo, mi ritengo fortunata perché, come ti dicevo, le esperienze che ho avuto mi hanno permesso di farlo. Quella della luce sotto e ai lati degli occhi è una cosa che mi hanno iniziato a far notare a Sanremo Young. Pensa che quando ero piccola alla fine di ogni esibizione mi capitava spesso di piangere in pubblico. Oggi è una cosa che ho imparato a gestire costruendomi una zona di confort in cui mi dico che se non mi sono emozionata o non ho emozionato qualcuno c’è qualcosa che non va. Insomma, ho preso consapevolezza che se non sento le emozioni che interpreto o canto non posso trasmetterle agli altri. Poi, certo, subentra l’esperienza e dunque la capacità di farlo senza che questo vada ad intaccare la mia psiche.
Non solo L’albero per Tecla Insolia, ma anche L’arte della gioia

Dopo il biopic su Nada hai cambiato radicalmente direzione interpretando una serie di personaggi in qualche modo lontani dall’immagine che lo spettatore si era fatto di te. In questo senso L’arte della gioia rappresenta un salto davvero notevole. Quello di Modesta infatti è un personaggio diverso, al di là del bene e del male, per la predisposizione ad attraversare l’intero spettro delle pulsioni umane. Interpretarlo ha significato mettersi in gioco sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Il personaggio di Modesta è libero per antonomasia perché in lei gli aspetti controversi e sbagliati hanno la stessa intensità e valore di quelli positivi. Arrivare a essere lei è stato faticoso. Ha voluto dire passare attraverso una serie di cose che ancora oggi fatico a considerare casuali e che a un certo punto mi hanno fatto ritrovare in Sicilia a studiare il dialetto locale insieme a un coach. È stata un passaggio molto potente a cui ho cercato di dare tutto ciò che avevo e anche di più. Abbiamo lavorato in un ambiente così fertile dal punto di vista artistico e culturale – parlo non solo della regia e degli attori ma anche di tutte le altre componenti – capace di metterci nella condizione di arrivare ai risultati che hai visto. Poi, certo, tutto questo non avrebbe avuto la possibilità di esistere se Valeria Golino non fosse stata capace di crearne le premesse e svilupparne le qualità. La sua direzione è stata indispensabile perché con un personaggio e un libro così controverso si poteva cadere nella retorica che di solito emerge dal tentativo di semplificare la complessità.
Considera che io sono presente in ogni scena per cui, girando tutti i giorni, a un certo punto ho avuto paura che il film sarebbe stato monopolizzato in maniera eccessiva dal mio personaggio. In questo senso Valeria mi ha tranquillizzato sul fatto che attraverso il montaggio avrebbe dato spazio a tutte le altre voci. Questo lo dico non per sminuire il mio lavoro, che è stato lungo e difficile, ma perché so quanto hanno contato le personalità presenti nel set: dal direttore della fotografia agli attori, alle attrici stratosferiche. Tutti ricordiamo le riprese come una sorta di bolla temporale in cui ogni cosa che accadeva ci sembrava importante e tale da essere riversata in quello che stavamo facendo. Eravamo convinti che quelle intuizioni sarebbero state viste e riconosciute da qualcuno che poi le avrebbe illuminate e colorate come hanno fatto Valeria e il suo montatore.
La grande intuizione di Valeria è stata quella di sceglierti. Considerato che la tua filmografia è appena agli inizi aver visto in te un’interprete così duttile e versatile non era un fatto scontato.
A parte il film su Nada, lei non conosceva il mio lavoro né sapeva della mia carriera musicale quindi è come se avesse fatto tabula rasa del mio passato. Fatto sta che durante i provini è scattato qualcosa di molto potente che mi ha fatto capire di poter comprendere fino in fondo il mio personaggio e dunque di poterne sostenere la personalità nonostante la paura di non farcela.
Tecla Insolia ne L’albero
L’albero presentava per te la novità di lavorare per la prima volta in un’opera prima e ancora di interpretare un personaggio opposto a quello di Modesta. Se quest’ultima era affamata di vita a Bianca l’esistenza sembra sfuggire dalle mani.
Bianca ha una voglia di vita altrettanto potente, ma espressa su un altro grado di realtà. Talvolta ci sono delle cose che non si riescono a sostenere se non portandole al livello di intensità in cui senti di doverle vivere come appunto fa Bianca.

Leopardi è uno dei riferimenti del film e della protagonista che del poeta recanatese è una sorta di discepola. Quest’ultimo definiva la noia “Il desiderio puro della felicità non soddisfatto dal piacere e non offeso apertamente dal dispiacere”. Mi sembra un’affermazione molto attinente allo stato d’animo del tuo personaggio.
Rispetto al discorso sulla noia ce n’è un altro più profondo e ancestrale. Con questo voglio dire che ci sono aspetti della vita dei personaggi accessibili a tutti e altri che vengono fuori dall’attinenza che uno ha rispetto a un determinato ruolo. A questo proposito devo dire di essere stata molto impertinente con la regista che è anche sceneggiatrice del film, riempiendola di domande. Per Sara Petraglia L’albero faceva riferimento anche a una storia personale e quando sai che questa cosa è già successa hai un tipo di responsabilità che è molto simile a quella che si ha quando si interpreta il ruolo tratto da un libro, in cui sai che c’è qualcuno che si è fatto un’idea del testo. In questo caso il lavoro è stato quello di abbandonare la paura di dover corrispondere all’idea di qualcun altro, come pure quella di interpretare un personaggio tossicodipendente. Facendo crollare ogni tentativo di giudizio a prevalere è stata l’empatia con il ruolo e, soprattutto, l’amore per l’autenticità della storia contenuta nella sceneggiatura. Quello di Bianca è stato un ruolo importantissimo anche per quanto riguarda la mia vita personale in un momento in cui sono successe tante cose a cominciare dal mio trasferimento a Roma.
Peraltro L’albero è un po’ un unicum perché, a parte Amore Tossico e Fame Chimica, la tossicodipendenza è poco raccontata dalla cinematografia italiana. Inoltre pur raccontando un’amicizia femminile L’albero va oltre le categorie di genere rappresentando un inno all’amore e alla vita.
Sono contenta che tu ti sia soffermato su questo aspetto perché ovviamente quando tieni particolarmente a un progetto ti senti sempre pronto a doverlo difendere immaginando le domande e le critiche per cui sono felice che ti sia arrivato come l’abbiamo vissuto tutte noi durante le riprese. È stato un film pieno di cura e di amore anche per la storia che stavamo raccontando che non vuole essere un grido generazionale e che con molto coraggio si prende anche delle responsabilità.
Dal punta di vista tecnico L’albero rappresentava per te una novità, quello che ti ha visto recitare con la mdp sempre addosso, avvalorando il discorso sull’autenticità della storia.
Qui torniamo al discorso di sentire le cose che fai e in questo caso, di poterle fare con una grandissima attrice e amica come Carlotta Gamba e con una regista come Sara che mi ha concesso la sua fiducia. Le esperienze che ho vissuto mi hanno fatto comprendere di essere disposta a fare tanto perché so che verrà riconosciuto e valorizzato da qualcuno che ci si ritroverà dentro. Tutto questo mi emoziona tantissimo perchè in un mondo in cui umanità ed empatia sembrano difetti riuscire a comunicare con gli altri fino a coinvolgerli dal punto di vista emotivo è qualcosa di prezioso.
In coppia con Carlotta Gamba

Insieme a Carlotta vi siete trovate a replicare l’euforia e la depressione della tossicodipendenza recitando senza maschere. La mancanza di un’esperienza diretta vi ha obbligato a costruire i personaggi facendo proprie le esperienze altrui.
Qui è stato fondamentale l’ascolto delle esperienza di Sara e la sincerità della sua scrittura. Interpretare un personaggio lontano da te non può essere solo un lavoro individuale e nel racconto della dipendenza penso che la particolarità di questo film sia stata la messinscena della noia, come mi dicevi tu prima. Siamo abituati a veder raccontate le dipendenze in modo eclatante dal punto di vista stilistico, fotografico e della frenesia della visione, come per esempio succede in Trainspotting. La forza del film di Sara è proprio la mancanza di spettacolarizzazione di una quotidianità anche distruttiva in cui il climax non è per forza rappresentato dall’effetto dell’assunzione chimica. Come succede per le cose che scrive Bianca anche L’albero non parla solo di cocaina ma anche d’amore e d’amicizia e quando succede diventa tutto molto più vero e autentico. Come attrice interpretare un personaggio con una dipendenza è qualcosa che ha acceso i miei sentimenti. Per me è molto importante la curiosità: quando mi sento così sono più propensa a sperimentare. In altri film sullo stesso tema mi ricordo di aver visto i personaggi sempre con gli occhi spalancati e il volto rigido invece con Sara abbiamo voluto rappresentare quello che aveva visto nel corso della sua esperienza. Con lei e Carlotta è successa una specie di magia perché, vista la delicatezza del tema e il fatto che Sara era al suo debutto, si rischiava la debacle. Al contrario lavorare con loro è stato uno dei periodi più belli della mia vita.

L’albero è un film molto musicale per come questa componente accompagna le vicende dei personaggi e per come influenza lo stile del film. Penso per esempio alla prima immagine di te e Carlotta insieme quando vi vediamo occhiali calzati e spalle appoggiate al muro mentre aspettate l’agente immobiliare. Il vostro look, e più in generale la composizione dell’inquadratura, mi pare rimandare all’estetica dei Joy Division. È così?
Eccome. I Joy Division è un gruppo molto amato dalla regista. D’altronde L’albero è un film punk da molti punti di vista. Io vengo da una famiglia in cui nessuno è stato abituato a frequentare il mondo artistico per cui per me questo film è stata un’esperienza nuova. Anche il fatto di girare con una troupe ristretta ci ha reso ancora più unite rendendo più divertente la lavorazione e questo credo che si senta. Non ci sono sovrastrutture, non c’è nulla di programmatico. I film dovrebbero essere tutti così, sinceri e amati nel momento in cui vengono girati perchè poi è impossibile che questi sentimenti non vengano trasmessi allo spettatore.
Parliamo del cinema che ti piace.
Sono cresciuta senza una vera educazione al cinema ed è qualcosa che sto incominciando a costruirmi da sola chiedendo e guardando. Mi rendo conto che da quando ho iniziato a lavorare non vedo semplicemente i film ma li studio, il che è una specie di condanna perché la testa si riempie di domande sul modo in cui sono stati fatti, su come gli attori sono riusciti a rendere i personaggi e così via. Detto questo c’è sicuramente un tipo di cinema che mi accende più di altri. Solo pochi giorni fa ho visto Io la conoscevo bene che è diventato da subito il mio film preferito. Mi piacciono molto i film che ti fanno vedere una realtà diversa da quella a cui siamo abituati: per questo amo il cinema di Nanni Moretti e di David Lynch. Lo straordinario mondo di Amelie Poulain è stato il film che da piccola mi ha fatto capire di voler recitare nel cinema. La tenerezza e la fragilità di quel personaggio è riuscita a toccare il mio cuore di bambina.