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Dopo Mezzanotte

Master Blaster al Fantafestival 2024

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Dicembre inoltrato, il mio negozio, freddo cane e clienti perditempo.
Colonna sonora Ancora tu? di Lucio Battisti.
No! Aspettate, fermi tutti!
Chi diavolo ha messo sul piatto (si, ascolto ancora il vinile) Lucio Battisti?
Mai sopportato Battisti! Anche collocandolo nella fascia di tolleranza dedicata alla bassa musica popolare che devi sopportare a forza quando vuoi prenderti il caffè al bar, quella che per intenderci ospita Francesco Salvi e i Måneskin, Battisti mi ha sempre provocato violenti attacchi di psoriasi scrotale.
Quindi fermiamo il giradischi, resettiamo l’articolo e mettiamo su qualcosa degli Iron Maiden, rigorosamente con Paul Di Anno alla voce.
Però a pensarci bene, per quanto distante anni luce dal mio gusto personale, il pezzo di Battisti ha un suo perché in questa vicenda.


Già, perché seguendo la 44° edizione del Fantafestival, mi sono ritrovato di fronte a due persone che mai mi sarei aspettato di vedere al timone della kermesse.
Luca Ruocco e Marcello Rossi!
Ovvero i direttori artistici del Fantafestival fino al 2018, tornati prepotentemente nella stanza dei bottoni in questo anno del Signore 2024.
Per la serie “errare humanum est, perseverare autem diabolicum”.
In realtà qualcosa sospettavo già, visto che la cortesissima addetta all’ufficio stampa del festival, confermandomi l’accredito, aggiungeva in calce alla mail i saluti di un tale Luca.
Certo che però vedermeli davanti, sorridenti come se nulla fosse, ha dato più di uno scossone alla mia serafica calma.
E dire che di cose strane ne ho viste nella mia vita.
Ovviamente tralascio la parte della discussione “tra amici” incentrata sulle strane strane strade che li avevano riportati all’ovile, perché vi annoierebbe e perché la definizione “una discussione tra amici” sottintende il fatto che quanto detto rimanga tra gli amici di cui sopra e tutti gli altri, semmai avessero pruriti da gossip, se li dovranno tenere.
Quello che però voglio condividere è la risposta corale dei due quando gli chiedo chi glielo avesse fatto fare.
Perché il primo amore non si scorda mai!”
E nel loro caso posso dire di crederci.
In generale in Italia, dove sussistono molti pregiudizi culturali a dir poco medioevali è difficile organizzare appuntamenti dedicati al cinema di genere.
A Roma poi, dove tutte le risorse che la saggezza del mai troppo compianto Nicolini aveva destinato alla promozione di tutto il cinema, in ogni sua declinazione, sono state drenate da quel golem senz’anima che risponde al nome di Festa del cinema di Roma, l’impresa assume i contorni della missione suicida.
Questo mostro senza né capo, né coda, senza una storia e nato con l’unico scopo di fare concorrenza al ben più sensato Festival di Venezia, non è mai decollato, non ha mai fatto storia o proposto qualcosa di nuovo e non ha trovato nemmeno una sua identità.
L’unico risultato che porta a casa è stato quello di soffocare il rigoglioso sottobosco di festival radicati nel territorio e nel tessuto urbano, che costituivano una caratteristica non solo dell’Estate Romana (oggi ridotta ad una pagliacciata per bovari texani in vacanza), ma del patrimonio culturale della Città Eterna.
Per veder rifiorire quella stagione di travolgente sperimentazione ci vorrebbe qualcuno così coraggioso da assumersi la responsabilità politica di ammettere che quella della Festa del cinema di Roma è stata un’esperienza fallimentare e che le risorse a lei destinate andrebbero ridistribuite in maniera più intelligente.
Ma non è lecito aspettarsi nulla di buono da una città che ha lasciato che si demolisse il Museo internazionale del cinema e dello spettacolo per far spazio all’ennesima speculazione di edilizia turistica che va ad aggravare il problema dell’overtourism (e stavolta l’anglismo è giustificato) che sta gentrificando senza pietà la capitale.

Il Fantafestival torna a Roma centro


Comunque, tornando al Fantafestival, Rossi e Ruocco, ormai in preda alla follia, fanno un ulteriore passo nel delirio riportando il festival a Roma centro, nel quartiere Trastevere, presso lo Spazio Scena.
Una scommessa ad altissimo rischio, se si considera che ormai tra ZTL, parcheggi a pedaggio, isole pedonali, trappole per turisti in cui si mangia da schifo e negozietti di souvenir, il centro storico è frequentato solo dai bovari texani di cui sopra, mentre i romani tendono ad evitarlo come la peste.
Però a conti fatti la nuova location ha almeno due aspetti positivi.
Il primo è quello di avere un grande spazio conviviale dove tra una proiezione e l’altra si può prendere un caffè con uno dei tanti ospiti illustri presenti al festival, o più prosaicamente, si possono scambiare due chiacchiere con gli affezionati frequentatori, quelle persone che magari incroci da trent’anni solo ed esclusivamente al Fantafestival, ma con cui non hai mai avuto occasione di parlare, nemmeno per le dovute presentazioni.
Tra l’altro questo mi ha permesso finalmente di conoscere Metal Carter, fedelissimo supporter del Fantafestival, la cui Pagliaccio di ghiaccio è stata uno dei brani basilari che han fatto da colonna sonora ai miei 30 anni.
Il secondo aspetto positivo è che la grandezza degli spazi a disposizione ha permesso una contaminazione artistica tra cinema di genere e disegno, ospitando la mostra tematica di Luca Musk, dedicata al celebre Dellamorte Dellamore, film di Michele Soavi tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi che ispirò il personaggio di Dylan Dog, al cui trentennale è dedicata la monografia del Fantafestival 2024.
Luca lavora in coppia con la sua compagna Rosa purpurea e unisce il classico disegno in china realizzato a mano con le più innovative tecniche digitali, per rielaborare dalle scene salienti del film dei piccoli capolavori pittorici.
In pratica è come vedere uno storyboard d’artista.
Facciamo una lunga chiacchierata insieme, in cui mi spiega i processi creativi e tutta la lavorazione che richiede ogni singola tavola.
Per chi fosse interessato, potrà ammirare i lavori di Luca alla sua personale in Via della Fisica 37 fino al 4 di febbraio.

Sempre sfruttando lo spazio “sociale” riesco anche a far due chiacchiere con Massimo Antonello Geleng, artigiano della vecchia scuola, scenografo praticamente di tutti i maestri del cinema, da Fellini a Fulci, passando per Argento (sua è la cripta di famiglia del prete maledetto nel finale di Paura nella città dei morti viventi) e in questa particolare occasione, ospite d’onore del festival in quanto scenografo di Dellamorte Dellamore.
Una vera emozione poter cazzeggiare al tavolino con il creatore materiale degli ambienti onirici di quel film che tanto ha influenzato la mia tarda adolescenza (i cui strascichi perdurano).
Cazzeggiare è la parola giusta, perché chiunque ami il cinema sa che al di là dei poderosi tomi di Ghezzi sull’estetica della settima arte, la storia del cinema è fatta soprattutto di aneddoti e Geleng di aneddoti ne ha una scorta d’annata.
Divertentissimi quelli relativi alle sue esperienze con Fellini, ma fuori contesto per questo articolo, decisamente più in tema è l’aneddoto sulla genesi del decoupage di Dellamorte Dellamore.
Racconta il maestro che l’idea originale era partire dalla realizzazione di un ambiente ispirato al famoso dipinto L’isola dei morti di Böcklin da realizzare a grandezza naturale nella celebre piscina del teatro N° 5 di Cinecittà. Ma ovviamente le velleità artistiche si scontrarono con la dura realtà di numeri e cifre e l’isola dei morti rimase un modellino. Quindi girate alcune scene di complemento in un cimiterino sperduto tra le montagne abruzzesi, rimaneva il problema della location.
Geleng dice che siccome sembrava brutto far risorgere degli zombie in un cimitero ancora in uso, per non turbare coloro che andavano in visita ai propri cari defunti, la scelta cadde su un vecchio cimitero sconsacrato e abbandonato da tempo, le cui parti danneggiate furono interamente ricostruite ex novo e al centro di tutto, il modellino dell’opera di Böcklin trovò finalmente una collocazione sotto forma di fontana cimiteriale.
Il top però riguarda la vicenda di un attore che impersonava uno zombie, il quale durante le riprese di una scena in cui avrebbe dovuto scavalcare il muro del cimitero, cadde rompendosi qualche osso in ordine sparso. Panico, seguito da una frettolosa corsa in ospedale non tenendo conto degli effetti che avrebbe provocato l’ingresso al pronto soccorso di un tizio acconciato alla moda di un morto vivente che emetteva per di più lugubri gemiti.

 

Altro ospite d’onore del festival è stato Zeph E. Daniel, sceneggiatore del politicizzatissimo Society di Yuzna che ci presenta il suo documentario sul film che lo rese celebre svelandone i retroscena oscuri, in base ai quali veniamo a conoscenza del fatto che lo spunto dietro la storia di fantasia avrebbe origine in fatti realmente accaduti, per di più allo stesso Zeph.
Ora, se i risvolti di cronaca siano la cruda verità o se quà e là ci sia stata qualche artistica infiorettatura, non è dato saperlo a noi comuni mortali.
Quel che è certo è che il documentario aggiunge una mano di smalto alla già grande aura di film maledetto che ancor oggi accompagna Society e che sicuramente i fatti influenzarono pesantemente tutto il lavoro successivo dello sceneggiatore, come si evince anche dal film Girl Next, proiettato al festival quest’anno.
Che dire? Sono sinceramente in difficoltà, perché l’idea di base di un medico tossicodipendente parazanista che per pagarsi il “vizio” trasforma ragazze bionde e con gli occhi azzurri in giocattoli sessuali, aiutato nell’opera da un travestito russo superdotato, con la fissa per le armi e la techno tedesca, non è mica male.
Però la resa è oggettivamente disastrata da più di un tentativo del regista Wade Carrel di fare il passo più lungo della gamba.
Tralasciamo le supercazzole metafisiche della sorella incestuosa del medico paranazista che lasciano il tempo che trovano e alla fin fine potrebbero avere anche un loro pubblico di estimatori, anche se a mio giudizio rallentano il ritmo narrativo più di quanto uno sproloquio a caso di Federico Rampini all’ora di cena non rallenti la digestione.
No, quello che proprio non mi dà pace è l’indulgere in effetti digitali tanto abbondanti, quanto dozzinali e ingiustificati che rendono il tutto involontariamente grottesco e retro.
Un capoccione, al quale era affidato il ruolo di deus ex machina e demiurgo che poteva tranquillamente e con più resa essere sostituito da una voce fuori campo, mi fa pensare che si tratti di un film di metà anni ‘90 tirato fuori come retrospettiva.
Immaginate il mio sgomento quando scopro che si tratta di una prima italiana di un film del 2021.
E sempre in tema di anteprime il festival di quest’anno segna un colpo gobbo, proiettando un giorno prima della sua uscita ufficiale nelle sale del film The Strangers (parte prima).
Onestamente non c’è molto da dire a riguardo, se non che io l’ho trovato davvero gradevole.
Nulla di nuovo sotto il sole per un classico prodotto in serie, ma tuttavia molto ben fatto e se, come chi vi scrive, avete amato le atmosfere del ciclo de La notte del giudizio, non potrete non restare almeno incuriositi da questa sua riproposizione in salsa country, con boscaioli psicotici al posto dei purificatori, spurgato da ogni risvolto politico, eppure non privo di quel pizzico di fascino sufficiente a farti passare un’ora e mezza in modo piacevole.
Ora, so che molti storceranno la bocca per quanto sto per dire, ma una delle cose che più mi è piaciuta di questa edizione del festival è stata la volontà di presentare ove possibile film già doppiati in italiano.
Ebbene si, la visione di un film per me deve essere un momento di godimento puro e onestamente non amo essere costretto a tradurre dall’inglese o distratto dai sottotitoli.
Onore quindi a Ruocco e Rossi che coraggiosamente hanno resistito alla facile e provinciale tentazione di presentare solo film in lingua originale (o peggio ancora in inglese, anche quando la produzione fosse italiana), solo per soddisfare l’egotismo prosopopeico di sedicenti intenditori che propugnano un’anglofilia di riporto allo scopo di ostentare un cosmopolitsmo d’accatto.
Finita la mia solita menata anticoloniale passiamo al prossimo titolo e reggetevi forte!

Si perché con Basileia, se non vi reggete forte, il rischio è quello di cadere tramortiti di sonno dalla poltrona dopo i primi dieci minuti.
Ora, già produzione svedese è sinonimo di noia e depressione (avete mai sentito parlare del famoso umorismo svedese? Ecco… un motivo ci sarà), ma se la produzione è italo-svedese con una spruzzatina di Danimarca per un film girato interamente nel dialetto calabro dell’Aspromonte ecco che per svegliarvi, al posto del caffè, dovrete ingoiare un ettolitro del cocktail che usano per indurre il coma farmacologico.
Un’elegante scatola vuota, un susseguirsi di scene elegantemente girate che però nulla portano al contesto narrativo, i cui strascichi hanno rischiato di farmi andare fuori strada con la moto sulla via del ritorno, nonostante il freddo dicembrino.
Certo le tette delle ninfe dell’Aspromonte messe a bella posta per tutta la durata del film sono un dettaglio apprezzato, ma tuttavia insufficiente per destare l’attenzione anche perché non ne cogliamo il senso.
Se l’autrice Isabella Torre voleva dirci qualcosa attraverso quelle nudità, probabilmente il messaggio è andato perso, coperto dal potente russare stereofonico che regnava in sala.

A strapparmi dal torpore calabro-scandinavo arrivano invece due gioiellini decisamente attraenti per vari motivi.
In primo luogo perché realizzati con tecniche d’artigianato, ci parlano degli artigiani del cinema che usano ancora oggi una tecnica delle origini, la cara vecchia e gloriosa stop motion!
Si, avete capito bene, la stessa tecnica che nel 1925 già usava Harry O. Hoyt per girare il suo Il mondo perduto.
Certo con qualche miglioria, ma ancora affidata tutta alla maestria e alla pazienza di questi artigiani del cinema che misurano il loro mondo e il loro tempo, nello spazio di pochi millimetri per secondo.
E poi, in The complex forms di Fabio D’Orta ci sono i “mostroni”!
Si, un sacco di mostroni, brutti, strani, intelligentissimi, ripugnanti e soprattutto belli grossi come piacciono a me a tiranneggiare il gruppo di alienati protagonisti, rinchiusi nel più classico dei villini settecenteschi.
Un topos dei film dell’orrore (anche se con risvolti profondamente psicologici) in cui la fa da padrone un senso del barocco, inteso in forma positiva nella sua accezione filologica come volontà di stupire ad ogni costo.
Onestamente non so quale sia il budget di The complex forms, ma in ogni caso direi che sono soldi spesi bene.
Anche perché qui la CGI è veramente ridotta all’osso e tutti i giochi di prestigio che vengono proposti sullo schermo sono fatti a mano alla vecchia maniera.
Il risultato quindi è un film involontariamente autoriale e per questo, un prodotto più sincero e credibile ritoccato in ogni fotogramma a colpi di cesello, in cui allo spettatore non è richiesto altro che sedersi e senza porsi troppe domande lasciarsi stupire come ad uno spettacolo di fuochi d’artificio.
Più di maniera, ma anch’esso piacevole è Stopmotion dell’inglese Robert Morgan.
Classico film del filone neogotico, è una storia di fantasmi e possessione che rispetta tutti i clichés del genere, compreso il tragico destino dei protagonisti.
Molto ben girato, nonostante la prevedibilità mantiene dei momenti di tensione non indifferenti, ma la vera sorpresa sta nel contesto metafilmico in cui è ambientato, inserendo le animazioni in vera stop motion direttamente all’interno dell’intreccio.
Ma un Fantafestival che si rispetti, non è un vero Fantafestival senza il momento ludico del cazzatone!
E visto il carnet pienissimo dell’edizione di quest’anno, Ruocco e Rossi hanno chiamato i rinforzi, chiedendo aiuto nientepopodimeno che al risorto Italian Horror Fest del coriaceo Luigi Pastore.
La 44° edizione del festival segna l’avvio della virtuosa pratica della cooperazione tra realtà affini, mandando finalmente in soffitta quello spirito di competizione che in un asfittico contesto come quello italiano, non portava ad altro risultato che non fosse la scissione dell’atomo.
Uniti si vince! E per dimostrarlo Pastore ci porta in dono la sua creatura più mostruosa.
Parliamo de La casa del sabba, opera prima di Marco Cerilli, uno strano personaggio che sembra un avatar di Leonard Nimoy in versione metal, il quale scrive, dirige ed interpreta come Orson Wells in Quarto Potere.
Beh… no, forse il paragone è un po’ esagerato e anzi, a dirla tutta, essendo fuori concorso di questo film non dovrei nemmeno parlarne.
Però il film mi ha fatto letteralmente allargare le braccia dallo stupore durante la visione, quindi merita nota, e poi per fare il mio lavoro non sono retribuito se non in natura, quindi alla fine faccio come cavolo mi pare.
Lo stupore deriva dal fatto di trovarmi di fronte ad un hellzapoppin all’ennesima potenza che già per il fatto di essere girato nella casa al mare in ristrutturazione di Pastore, per risparmiare sul decoupage di una villa tenebrosa e decadente merita un applauso, ma questo è niente.
Fin dai primi minuti mi sono letteralmente trovato schiaffeggiato dalla compilation di tic nervosi dell’attore che interpretava l’agente immobiliare che piazza la casa infestata ad un americano di Ronciglione, tanto che per solidarietà dopo cinque minuti mi ritrovo in preda ad una serie di movimenti involontari su cui fatico ad avere un controllo.
Più la trama si dipana e meno ci capisco, ma non importa.
Come in un viaggio di LSD quel che conta non è il senso generale, ma gli accostamenti.
Un po’ come il culto della salamandra cieca, i cui adepti, benché morti, ancora infestano la villa di cui sopra.
Per un attimo mi chiedo, perché sta cazzo di salamandra è cieca?
Perché non sorda o muta, o meglio ancora balbuziente?
Ma è un attimo: quando vedo il regista nei panni di un dottor Spock metallaro camminare sulle acque, parlando con la voce di Clive Riche, smetto definitivamente di pormi domande e mi abbandono per fede al fatalismo proprio di ogni omen.
Intendiamoci, ci sono molti modi in cui un film può piacere.
Puoi tirare fuori un capolavoro come Shining, ma non è questo il caso.
Oppure, senza manco volerlo ti puoi ritrovare tra le mani “na cosa davvero strana” tipo Il bosco 1 e direi che qui ci avviciniamo molto di più.
Ma l’unica cosa che davvero conta è divertire il pubblico.
Che urli di terrore o che rida di gusto, l’importante è che non sbadigli e partendo da questo assioma direi che il film di Cerilli ha pienamente colto nel segno.

Animale di Emma Benestan: una regia secca, asciutta e al contempo evocativa di potenti simbolismi

Adesso dovrei parlare del film che ha vinto l’edizione 2024 del Fantafestival, ma qui dovrò andarci coi piedi di piombo.
Intanto perché, caso più unico che raro, per una volta le decisioni della giuria incontrano il mio gusto personale.
In secondo luogo perché introdurre Animale di Emma Benestan come un film di tori mannari che uccidono toreri gitani impasticcati nelle notti di luna piena, può generare qualche fraintendimento.
A dispetto del soggetto che esposto come ho testé fatto sopra può sembrare strano, ve lo concedo, e a dispetto del fatto che arrivati ad un terzo del film si capisce perfettamente tutto l’intreccio narrativo, la cosa sbalorditiva è la delicata raffinatezza con cui l’autrice ci racconta una storia ampiamente prevedibile e potenzialmente grottesca.
Sarebbe bastata un’inquadratura fuori posto o un dialogo sbagliato per mandare in vacche (e qui è proprio il caso di dirlo) l’intero film.
Eppure Benestan ci racconta una storia che non fa ridere, mantenendo il pathos ad un livello tale che lo spettatore pur intuendo bene cosa succederà, non potrà fare a meno di identificarsi con la storia.
Intendiamoci, chi mi conosce sa che le questioni di genere hanno smesso di appassionarmi da quando sono diventate di moda.
In più vivo la strana condizione di non essere maschilista, ma nemmeno femminista.
Sono contro il patriarcato ma non vorrei vivere in un matriarcato.
Inorridisco per gli stupri, ma non credo che ogni uomo sia uno stupratore.
Insomma, sono quello che una volta si sarebbe definito “per la parità” e mi rendo conto che in una società che vive di assoluti supersemplificati sulla brutta copia di quella americana (che già è brutta di suo), la mia sia una posizione troppo complessa per essere compresa dai più.
Quindi capirete che quando mi trovo davanti ad un’opera che tratti di violenza di genere io ci vada sempre coi piedi di piombo nel parlarne, tanta è la paura di essere frainteso.
Eppure qui è la regista stessa a sedurmi con una protagonista forte, reattiva.
Donna affermata in un mondo di uomini (per di più in un ambiente liminale come quello gitano) non per diritto di nascita o per quote rosa, ma per i suoi meriti e per le sue qualità che sono manifeste fin dalle prime sequenze, quando guida da sola una mandria di tori.
Vittima di un abuso non per la sua condizione di vittima predestinata, ma per l’abiezione di chi gli sta intorno che è abietto come essere umano e non a prescindere solo perché “maschio”.
Tant’è che l’autrice non manca di tratteggiare anche figure maschili positive.
E che dire della resa poetica di un topos a fortissimo rischio di ridicolo, come quello di un “toro mannaro”?
Ma anche qui, la drammaticità severa di una regia secca, asciutta e al contempo evocativa di potenti simbolismi è inappuntabile.
Il film non strappa nemmeno un sorriso, ma inchioda, appassiona e fa riflettere.

Il tempo del sogno: un viaggio nel decennio d’oro del cinema horror italiano

Chiudo questo lunghissimo reportage sul festival con il documentario Il tempo del sogno, del compianto Claudio Lattanzi.
No, forse ho sbagliato definizione, più che un documentario questo è un testamento, un viaggio, un indagine autoptica fatta con elegante crudeltà in cui si indaga con rimpianto il decennio d’oro dal 1984 fino al 1994 che portò alla scomparsa del cinema horror italiano proprio nel suo apogeo.
Una morte improvvisa, non seguita ad una lenta agonia, ma un’esplosione di una stella che al massimo del suo splendore diviene una supernova.
Si analizza non solo il cinema ma tutto il mondo della cultura dell’horror e del fantastico che dall’Italia faceva scuola al mondo intero partendo e finendo con due capolavori.
Demoni di Lamberto Bava, violentissimo, carico di una rabbia oltraggiosa e senza freni che come un fiume in piena rompe ogni argine e dilaga.
Dellamorte Dellamore di Michele Soavi (che pure recitò in Demoni), romantico, decadente, visionario, tristissimo, disilluso eppure ironico e delicato.
L’alfa e l’omega, due lati opposti della stessa medaglia, un punto di partenza, un punto di arrivo e tutto quello che c’era in mezzo.
Il documentario non dà risposte, ma attraverso le voci dei protagonisti aiuta a porci la domanda che tutti dovremmo farci.
Come è stato possibile?
Dov’è finito tutto quell’universo?
Come siamo finiti da Soavi a Guadagnino?
Com’è possibile accontentarsi oggi di Checco Zalone dopo aver visto l’invasione dei Demoni?
In poche parole, come abbiamo fatto noi (tutti, autori, critici, pubblico) a ridurci così?
La visione de Il tempo del sogno è un’esperienza dolorosa per chi come me ama visceralmente quel momentum di vita culturale in cui sembrava fosse possibile fare qualcosa di diverso del cinema italiano.
Ed essendo il cinema lo specchio dei nostri tempi è come se sfumati i sogni degli anni ‘80 e ‘90 anche la possibilità di fare qualcosa di diverso della società italiana stessa sia finita, dimenticata in fretta come il ricordo dei sogni che svaniscono al mattino.

Colonna sonora: Pagliaccio di ghiaccio di Metal Carter.