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Alice nella città

Intervista ad Alexandrina Turcan, regista di ‘We want to live here’

Abbiamo intervistato Alexandrina Turcan, regista di 'We want to live here'. Il corto-doc prodotto da Sean Penn sul conflitto ucraino è in concorso nella sezione dei cortometraggi internazionali di Alice nella città 2024

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Abbiamo intervistato Alexandrina Turcan, regista del corto We want to live here in concorso ad Alice nella Città 2024. Il film pone lo sguardo sulla vita quotidiana dei bambini di Borodyanka, in Ucraina, un anno dopo l’invasione russa. La forza dello spirito ucraino è descritta attraverso gli occhi di tre giovani ragazzi, diversi tra loro ma uniti da una comune esperienza di paura e dolore. L’effetto tangibile della guerra su di loro emerge attraverso le conseguenze emotive e le ferite che ha inflitto.

‘We want to live here’ ad Alice nella città 2024

La guerra attraverso lo sguardo dei bambini

Come sei entrata in contatto con i tre giovani protagonisti di We want to live here

Non ho fatto altro che camminare. Ho chiesto a un guidatore di portarmi nelle città che volevo visitare. Una volta arrivata, scendevo dalla macchina e iniziavo a camminare alla ricerca di bambini con cui parlare, ed è così che li ho trovati. Ovviamente il contesto è molto serio, ho discusso molto con i loro genitori. É stato un lungo processo ma alla fine sono davvero grata che mi hanno concesso di entrare nella loro intimità.

Sei riuscita ad ottenere la fiducia dei bambini.

Si, perché giocavo molto con loro, ci siamo divertiti. Abbiamo trascorso tre mesi insieme, ovviamente non in modo continuativo. Entravo e uscivo dalle loro vite. Avevamo bisogno di tempo per preparare le riprese che volevamo girare la volta seguente.

Hai filmato in un territorio di guerra. Hai avvertito momenti di pericolo?

No, perché tutti sono assolutamente abituati al suono delle sirene, che di fatto abbiamo sentito costantemente durante le riprese. Le sirene avvertono di un pericolo e della necessità di ripararsi in luoghi sicuri, ma di fatto questo non avviene più. Le persone non si nascondono più, vogliono vivere la propria vita. Ho quindi adottato lo stesso approccio dal primo giorno che sono arrivata in Ucraina per girare. Forse è stato irresponsabile da parte mia, ma tutto è andato per il verso giusto, e Borodyanka era abbastanza sicura nonostante tutto.

Le conseguenze ‘invisibili’ della guerra

Qual è l’intenzione che muove il cortometraggio? cosa volevi mostrare al pubblico?

Molte famiglie hanno lasciato l’Ucraina, ma chiediamoci cosa accade a chi resta. Volevo mostrare quello che la guerra produce nella popolazione senza mostrare immagini di guerra, di bombardamenti. Nel corto non c’è nulla di tutto questo. Ci sono solo i bambini che parlano. Molte persone discutono in merito ai soldi persi, ai palazzi distrutti, mentre io volevo parlare delle nuove generazioni che crescono con molta rabbia dentro. I bambini non hanno alcuna prospettiva se non quella di diventare soldati ed è incredibile e preoccupante come siano diventati virili in poco tempo, con un’idea chiara della mascolinità, della forza. Mi sono concentrata sui bambini e non sulle bambine proprio perché  sono loro, in quanto maschi,  ‘destinati’ alla guerra, a combattere. Presi singolarmente si lasciavano andare a vere e proprie rivelazioni, mostravano le loro paure e insicurezze mentre in gruppo adottavano un altro atteggiamento, si mostravano meno vulnerabili. Non dimentichiamoci che sono vicini a noi, a un passo dalla Moldavia, dall’Italia. Non sono in un altro continente, sono qui.

Come percepivano il tuo lavoro in quanto filmaker? come si relazionavano alla camera?

Non riesco nemmeno io a percepire me stessa come una filmaker.  Non ho mai girato film prima. Ho sempre lavorato come modella o attrice. Non avrei mai immaginato di poter arrivare fin qui, mostrare quello che ho girato al pubblico, e ricevere degli apprezzamenti in merito. Avevo alcune persone che mi aiutavano con la camera e con cui discutevo delle riprese. C’era più un rapporto di amicizia tra me e i bambini. É un documentario per cui non dicevo loro cosa fare o dire. Ero semplicemente una loro amica. Prima di girare abbiamo fatto un lungo lavoro di preparazione ed ero molto spaventata all’idea di intervistarli. Avevo paura di fare degli interrogatori, ma alla fine erano veramente contenti di essere ascoltati e presi in considerazione. Sono in contatto tuttora con loro, e li rivedrò molto presto in Ucraina per un altro festival di cinema.

L’incontro con Sean Penn

Come sei entrata in contatto con Sean Penn, produttore del tuo corto We want to live here? Com’è andata?

Per prima cosa la casa di produzione che mi ha aiutato per il cortometraggio ha anche collaborato con Sean per la realizzazione del suo documentario sull’Ucraina. Poi un giorno ho avuto una grande occasione. Ho incontrato Sean e gli ho mostrato il mio film. Dopo averlo visto mi ha detto che l’avrebbe prodotto senza alcuna esitazione, e questo è quello che è successo.

La nostra recensione di we want to live here a questo link

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