Liar, diretto dalla regista russa Yulia Trofimova, già presentato alla 46° edizione del Moscow International Film Festival, è tra i lungometraggi in concorso al Lucca Film Festival. Il film, che narra la storia di un’adolescente annoiata, la cui vita viene travolta da una bugia detta e non rimangiata, così come stravolta è la vita di chi, in lei, è incidentalmente incappato e di chi, invece, da sempre le è vicino, è stato proiettato in anteprima italiana al cinema Astra per la sezione lungometraggi.
Di cosa parla Liar
Eva, a differenza dei coetanei, la cui vita osserva, guarda e invidia dai video e dalle foto social, è una diciassettenne dalla vita noiosa e piatta. Una vita resa ancor meno entusiasmante dal lavoro, part time, in una gelateria, scandito da una quotidiana monotonia e dalla pedanteria e maleducazione dei clienti. Rotta soltanto quando, un giorno, al di là del bancone dei gelati, compare Alexander Voronov, famoso cantante di una band che, impaziente, stanco dell’attesa e insoddisfatto del servizio, reagisce violentemente. Provocando un grido, un urlo, quello di Eva, scatenato probabilmente dalla frustrazione e infelicità di una pesante solitudine piuttosto che dalle presunte percosse del cantante, in attesa, semplicemente, del resto di denaro spettantegli.
Ma che, chi d’intorno, e in lontananza, sente, interpreta come un tentativo di violenza. Una distorsione della realtà, una bugia, che la stessa Eva non contraddice ma alimenta, con un silenzio consenziente e assertivo. Una menzogna, e da quella, tutto ciò che la ragazza, fino a quel momento, aveva sognato: un amore, un’amica, una voce. A discapito, anche, della verità. Una verità che soltanto alla fine, forse, superate le ipocrisie di una società che tutto classifica, schiera e giudica con grande facilità, verrà fuori.
Liar: l’importanza di essere visti
Un grido. Parte tutto da lì: le bugie, la folla, la notorietà, l’amore. Da quella bugia, in Liar, Eva ottiene, appunto, ciò che fino ad una scossa, un grido, un momento prima, aveva sempre sognato, e non ancora avuto. E quello che è insito nella fase adolescenziale, ma anche nell’individuo stesso, grande, piccolo, o adolescente che sia: l’essere visti, riconosciuti, e apprezzati dagli altri. È questo a cui Eva, nonostante la consapevolezza dell’errore e del dolore che questo errore può causare, una volta ottenuto, non riesce a rinunciare. Ai saluti che, per la prima volta, a scuola, le rivolgono, agli sguardi di consenso, all’amore, il primo, che Lev, suo “salvatore”, le offre. Ma è proprio questo consenso, altrui, che sembra fare da filo rosso all’intero film, alle vicende, non solo di Eva, ma anche degli altri personaggi.
Lev, nonostante l’affetto e l’amore che prova per la ragazza, sembra spingerla a “cavalcare” l’onda di questa menzogna, forse per la paura che, altrimenti, il legame creatosi proprio grazie a quell’evento, svanisca, scompaia con la bugia stessa. E, nonostante quell’amore, dall’altra parte, ricerca l’approvazione, la pacca sulla spalla, dei compagni di scuola per, “finalmente”, avere una ragazza che, però, rispecchi i canoni di bellezza, sempre perfetta e mai fuori posto, prescritti dalla società.
Così come Alexander, visto ora, dopo anni di riflettori e di sguardi ammirati, con disgusto e repulsione. In un’analisi, di primi piani e dettagli, dei volti dei personaggi stessi, dei loro occhi, e delle loro espressioni, che guardano al mondo, e alle persone, con supplicante desiderio di approvazione, e di uno sguardo, che ne valga la pena. Per capire, forse, solo alla fine, che, a valerne la pena, è lo sguardo puro, senza riserve, della verità.

L’ipocrisia dell’opinione comune
Liar è un film che non soltanto guarda a chi, quella bugia l’ha detta e continua ad alimentarla, con tutte le implicazioni e i sensi di colpa derivanti, ma anche a chi, quella bugia, la subisce, direttamente o indirettamente. Dall’imputato che, innocente, cade in un vortice di invisibilità, silenzio ed esclusione, dal mondo del lavoro, e della famiglia. A chi, nella famiglia di Eva, quasi inerme e quasi impossibilitato ha difficoltà a far fuoriuscire la realtà delle cose, per amore e difesa della figlia, o sorella. E a chi, tra i giornali, le televisioni, e la comunità stessa, facilmente portavoci e giustizieri di cause, l’accoglie, la enfatizza, la racconta e la romanza.
Ma Yulia Trofimova lo fa offrendo più punti di vista sui fatti e sui possibili colpi di scena che la vita può offrire, senza necessariamente emettere una sentenza specifica, dura e decisa. Se non quella della facilità con cui, molto spesso, trascinati da un’idea maggioritaria e preponderante, ci si schiera e si prende la parti, evitando di sviluppare una propria voce, una propria opinione, che sia anticonvenzionale, e controcorrente.
Un gioco di luci e ombre
Yulia Trofimova struttura Liar in questo gioco di parti, tra chi giudica e chi è giudicato, tra rimorsi, rimpianti, paure e speranze. Lasciando la camera libera di riprendere i punti di vista, le luci e le ombre, dell’una e dell’altra parte. Colori pastello degli ambienti, della gelateria e della cameretta in cui Eva lavora e dorme, o dei vestiti della protagonista stessa, tipici della leggerezza e spensieratezza di quell’età, stridono, convivono e si intersecano, in un altrettanto gioco di musiche, che alterna pop a suoni più cupi, profondi e oscuri, a scene buie, ombrose, sintomo di una situazione drammatica, pesante, che, invece, a quell’età adolescenziale, non dovrebbe appartenere.
In un gioco, sì, di ombre e luci. Che è, alla fine, anche quello della vita.