Il cambiamento climatico ha allungato la stagione secca e con essa anche quella degli incendi. La colpa dei roghi viene attribuita ai piromani, al lacunoso sistema di prevenzione e all’incuria umana. Oggi il fuoco è diventato simbolo di morte e distruzione. Eppure, è proprio attorno ad esso che si è sviluppata la civiltà. Fin da tempi arcaici, l’abilità nel saper sfruttare, indirizzare e combattere il fuoco ci differenzia dagli altri esseri viventi.
Fuochi è un documentario corale che invita a ricostruire il rapporto perduto tra l’ uomo e il fuoco. Opera prima del regista marchigiano Ruben Gagliardini che ci guida in una narrazione che prende vita in Sardegna, regione afflitta sempre più duramente dalla piaga degli incendi estivi. Un territorio dove la lotta allo spegnimento si mescola ai racconti di chi subisce le fiamme sulla propria pelle; persone, flora e fauna senza discriminazione alcuna. Sullo sfondo tradizioni e canti di un popolo, quello sardo, che convive da sempre con la bellezza e l’asperità della natura.
Fuochi, selezionato per il 10° Festival internazionale del Documentario Visioni dal Mondo, in scena a Milano dal 12 al 15 settembre 2024 nelle location del Teatro Litta, la Cineteca Milano Arlecchino e il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, è un’opera coraggiosa e brillante che descrive il dramma degli incendi in Sardegna dall’interno, grazie al lavoro di una giovane troupe di quattro persone: Ruben Gagliardini alla regia, Nicola Sorrentino (Aiuto Regista), Alessandro Baroli (Produttore Esecutivo e 2AC) e Tommaso Giantomassi (Direttore della Fotografia).
La crew di Fuochi ci ha raccontato retroscena e dettagli di un viaggio epico e pericoloso nelle viscere di una delle dimostrazioni più devastanti del cambiamento climatico all’interno del nostro paese.
L’intervista: nell’occhio del ciclone con la troupe di Fuochi
Ruben, cosa ti ha portato a realizzare questo documentario? Qual è la tua storia e come ti sei interessato a questo tipo di tematiche?
Ruben Gagliardini è un artista a 360°. Originario di Fabriano, la città della carta nel cuore delle Marche e formatosi come sceneggiatore alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano. É il giovane regista di Fuochi.
La mia sensibilità verso le tematiche ambientali nasce principalmente grazie a due movimenti; uno è Ultima Generazione, un altro è un collettivo marchigiano che intrecciava arte e ambiente. Due cose che, prima di Fuochi, non ero mai riuscito a condensare in un unico progetto; le avevo sempre percepite come molto distinte. Da una parte facevo illustrazioni e musica, mentre dall’altra c’era l’attivismo.
Poi è successa una cosa. Due anni fa, sono andato al cinema e ho visto One Day One Day, un documentario fatto dai ragazzi di A Thing By con Willmedia, ed è stato uno shock, perché ho visto quel documentario sui raccoglitori di pomodori che non era solamente un reportage televisivo, freddo, ma aveva dentro una forte nota autoriale, un valore anche artistico. Questa cosa mi ha fatto scattare la scintilla, una sorta di epifania, ed è nato un po’ così il progetto. Adesso sto lavorando a diversi nuovi progetti. Dalla ricerca sull’alluvione nelle Marche a quella sulla siccità, mi sto aprendo ad altre tematiche.
In Fuochi c’è tanta ricerca visiva. Sentivo l’esigenza di fare un documentario che fosse un buon mix tra qualcosa di visivo e qualcosa di importante a livello contenutistico, il miglior compromesso possibile tra estetica e narrazione. Mi sono reso conto che sono sempre interessato alle crisi, come concetto; raccontarle, perché sono dei calderoni in cui c’è del conflitto, una molteplicità di punti di vista che non sempre sono unici. In Fuochi questo c’è, non si ha un’unica visione del mondo, è un racconto complessivo di una realtà che di per sé è complicata.
Che sfida è stata realizzare Fuochi? Come è stato approcciarsi a un tema così delicato, costruirvi intorno una storia, trovare le persone giuste e riuscire a toccare i punti chiave?
La produzione di Fuochi si è estesa per circa tre anni, nei quali la crew ha affrontato sfide importanti sia a livello documentaristico che umano, assistendo in prima persona all’immane distruzione che i fuochi in Sardegna causano quotidianamente.
Ne ha parlato Nicola Sorrentino, aiuto regista di Fuochi.
Dal mio punto di vista una delle sfide più grandi è stata quella di trovarsi in situazioni spesso pericolose, seppur insieme alla Forestale, in un territorio selvaggio come quello sardo. Il mix anche di fuoco e vento può essere davvero fatale per chiunque. Basta vedere la statistica dei professionisti che purtroppo muoiono durante le operazioni.
Oltre a questo trovo interessante il modo in cui tutti noi abbiamo vissuto la produzione del documentario, l’approccio sempre molto attento a quello che ci circondava. Al di là della nascita dell’idea e del suo sviluppo, siamo sempre stati molto attenti a dare una direzione, cambiando anche in corsa. Non è stato sempre semplice ascoltare le persone, stare all’erta sulle chiavi di lettura differenti che ci venivano fornite sul tema stesso.
Quindi, partire con un’idea, ma dare una direzione attraverso la testimonianza delle persone con cui siamo stati, ci ha permesso di trattare il fuoco a 360°, senza fissarci verso un’unica direzione, ma sempre pronti ad ascoltare, anche degli argomenti che noi stessi non pensavamo fossero plausibili, come ad esempio, il controfuoco, che è poi diventato uno dei temi fondamentali del documentario. E questo, secondo me, è stato molto stimolante.
Si tratta quindi di un progetto che è evoluto molto rispetto all’idea iniziale, man mano che vi addentravate nella realtà degli incendi in Sardegna e realizzavate la portata di ciò che sta accadendo.
Il regista, Ruben Gagliardini analizza questo aspetto.
Il progetto in sé è nato quasi da un desiderio inspiegabile. Una mattina mi sono svegliato e mi sono confrontato con Tommaso Giantomassi, che è il direttore della fotografia. Gli ho detto: “Guarda, Tommy, io vorrei fare un documentario, non so esattamente su cosa”.
Quindi Tommaso mi ha raccontato di avere un amico, Alessandro Baroli, produttore esecutivo [N.d.R.], che vive in Sardegna e abbiamo iniziato ad informarci. C’erano varie opzioni, come la possibilità di farlo sugli anziani, ma alla fine abbiamo capito che, in qualche modo, il fuoco era quello che sentivamo più importante, anche dal punto di vista emergenziale. Questo progetto è nato proprio perché c’è un’emergenza in corso, un dramma che si sta consumando adesso. Il cambiamento climatico ti arriva in faccia, non è qualcosa di così illusorio, intangibile.
Quando arriva il momento di fermarsi?
La sfida principale di questo progetto è stata quindi dirsi ‘stop’, perchè questa è come una guerra e se racconti di una guerra ogni giorno hai delle novità. Quando abbiamo iniziato a filmare eravamo in ritardo rispetto all’incendio del Montiferru, un disastro devastante per cui bruciò una montagna intera e abbiamo poi scoperto, un anno dopo, che un altro regista aveva fatto un reportage raccogliendo archivi di quella nottata. Sei sempre in ritardo o in anticipo sulle cose, perché anche quest’anno gli incendi sono andati avanti, così come andranno avanti il prossimo anno… è una cosa che non finisce, quindi sì, è stato difficile dirsi ‘stop’.
Questa cosa riesci ad ottenerla nel momento in cui hai chiaro quello che vuoi comunicare e noi volevamo dire che il rapporto con il fuoco va ricostruito. Il fuoco, come qualsiasi elemento, come l’acqua, può essere fonte di sviluppo sociale, di costruzione della civiltà; basti pensare che attorno al fuoco si è sviluppata la cultura in cui viviamo, no? Attorno al falò, attorno alla cottura del cibo per renderlo più commestibile, idem attorno all’acqua. Però oggi viviamo in un mondo dove questo rapporto viene sempre meno, ci sono mille modi in cui viene demonizzato il fuoco, viene sempre associato all’incendio e non a un elemento che può aiutarti. Con questo documentario abbiamo cercato di ripristinare questo rapporto, in un certo senso perduto, tra uomo e fuoco.
Come è stato approcciare le persone coinvolte? Che si trattasse dei professionisti della Forestale o degli anziani, motore della cultura contadina del luogo. Che impressione vi hanno dato?
Vivendo direttamente e quotidianamente una tragedia così grande, è necessario saper entrare in contatto con la cultura locale e le persone, che siano vittime o guerrieri, perennemente avvolte da quel fuoco incontrollato; sentire quindi realmente la necessità di raccontarne le vicende, empatizzare con loro per far emergere al meglio il racconto e dare un senso più grande a quello che si sta facendo. Lo spiega per primo il regista di Fuochi, Ruben Gagliardini.
Ciò che posso dire di aver scoperto è che quello che la Forestale fa ogni volta è un atto di eroismo, perché il fuoco è sempre pericoloso, non c’è mai una volta in cui può essere preso sottogamba, perché quella volta muore qualcuno o succede qualcosa di veramente grave. Il rapporto che abbiamo sviluppato con loro? Beh, tendenzialmente durante le riprese è stato un rapporto di amicizia, di fiducia: quando siamo andati sugli incendi, siamo sempre stati sotto la loro ala, protetti da loro.
Ne parla anche Alessandro Baroli, produttore esecutivo e 2AC spesso a stretto contatto con i diretti interessati.
È verissimo, ed è stato più facile del previsto instaurare un rapporto con la forestale, hanno capito subito qual era il nostro intento con questo documentario. Quindi ci hanno accolto come se fossimo loro figli, loro ragazzi che vogliono raccontare di una terra che purtroppo vive questa sventura da sempre. Ci hanno fatto salire sui mezzi, come appunto l’elicottero, andare effettivamente con il GAUF, il Gruppo di analisi e uso del fuoco del corpo Forestale [N.d.R.], per renderci possibile raccontare quello che fanno nella maniera più reale e viva possibile. Sia l’impegno sul campo, sia il rapporto che loro hanno con il fuoco all’infuori del proprio lavoro.
Il dualismo del fuoco, tra scienza e magia
Abbiamo conosciuto, ad esempio Lino, un membro del GAUF che fa anche parte di un gruppo che certe sere si traveste con costumi tipici e svolge dei riti antichi basati sul fuoco. Quindi chi di giorno difende le fiamme, poi si trasforma in questa maschera. Mi perdoneranno se la definisco maschera, ma lo vivono davvero a 360 gradi.
È una cosa che ho percepito tanto e abbiamo cercato di raccontarla al meglio dentro il documentario, questa dualità tra scienza e magia, in un certo senso, perché quello che il corpo forestale fa sul campo è qualcosa di estremamente scientifico. Sanno che, ad esempio, usando il fuoco possono spegnere il fuoco, è la tecnica del controfuoco, poi però di notte si trasforma il loro rapporto con l’elemento, diventando, come potrei definirlo… profano, pagano? Sacro.
Questa definizione data al fuoco, ‘sacro’, apre i ragazzi ad altre memorie
Esatto, sacro, come appunto il fuoco di Sant’Antonio che dà inizio alle festività di tutto il carnevale sardo del Carrassecare, letteralmente “carne da tagliare” [N.d.R.], si apre proprio con questo fuoco sacro, perché Sant’Antonio porta il fuoco agli uomini per riscaldarsi. Qui ritorna il dualismo tra scienza e magia.
Il nostro narratore, è un poeta che durante il documentario fa degli interventi su quello che abbiamo visto e lui è il chiaro esempio di un’umanità, sarda, che è stata modellata dal fuoco, perché il bosco in cui è cresciuto un giorno è bruciato. Un momento di profondo dolore che gli ha cambiato la vita per sempre, ci sono molte altre testimonianze così.
Tommaso Giantomassi parla quindi di ciò che ha potuto scrutare nelle persone delle comunità colpite.
Quello che ho visto è stato un po’ più il lato intrepido della persona, perché nonostante non fossero attrezzate e non sapessero esattamente cosa fare, andavano lì a spada tratta a combattere il fuoco ed è un approccio naturalmente rischioso. La forestale ci ha mostrato delle immagini che non abbiamo potuto divulgare, di persone che hanno provato a fare qualcosa e poi sono morte carbonizzate. Anche durante le riprese ci capitava di trovare gente che dal nulla entrava con quello che aveva per provare a soffocare il fuoco. La protezione civile cercava di allontanarli, ma a loro non importava, volevano combattere!
Ruben Gagliardini aggiunge la propria analisi al riguardo.
Secondo me questa è una cosa molto universale. Di fronte ad un dramma che può essere un incendio, un’alluvione, un terremoto, c’è una risposta umana nel volersi rendere utili il più possibile e nell’immediato. Forse sono questi eventi che ti fanno essere veramente innamorato del tuo territorio, è un desiderio primitivo e i sardi, li abbiamo conosciuti, sono persone dall’animo forte.
Il particolare senso di comunità insito nella cultura sarda visto da chi, la Sardegna, la chiama casa
La parola passa a Nicola Sorrentino e Alessandro Baroli, entrambi sardi e attenti osservatori del loro territorio.
Secondo me il concetto di comunità è fondamentale. La Sardegna è un territorio molto particolare. Storicamente è stato un territorio anche conflittuale, laddove anche un piccolo confine di paese poteva sancire una faida. A me è capitato di vedere questo e il fatto che nella nostra troupe ci fossero due quote, quindi non solo sardi, mi ha permesso di vedere il mio mondo attraverso gli occhi di Ruben e Tommaso. Andare in giro con loro non era come andare in giro con delle persone sarde e basta, ma significava cercare di approcciarsi al territorio in altro modo, insieme a loro.
Ricordo una giornata d’estate. Avevamo sempre sott’occhio i radar per capire dove andavano gli incendi e di conseguenza la forestale e poterli seguire per realizzare più riprese possibile. Quel giorno ci dividemmo, io e Ruben andammo a San Gavino e lì vedemmo un paese totalmente piegato. In mezzo a tutte le persone che cercavano di aiutare in qualche modo chi era stato maggiormente colpito, e noi, con la macchina da presa, ci sentimmo quasi inutili. Ma in quel momento notai che quell’elemento, quasi antropologico sardo, dell’essere un po’ chiusi, si annullava completamente davanti all’emergenza.
Nel documentario si nota che la popolazione sarda, anche chi non fa parte della Forestale, conosce talmente tanto bene il fenomeno dei fuochi da aver tramandato determinati concetti. Alcuni degli strumenti che il GAUF utilizza per domare gli incendi non sono altro che la versione più raffinata di quelli che utilizzavano i contadini in precedenza. Il rapporto con il fuoco in Sardegna è talmente antico che si hanno testimonianze circa l’uso del controfuoco in testi del 1500.
Come vi siete approcciati a qualcosa di così imprevedibile e mutevole come gli incendi? In che modo avete gestito la cosa a livello tecnico, di regia? E quali altre sono state le cose più difficili da riprendere o che non avete potuto mostrare?
Ruben Gagliardini prende la parola.
Il fuoco è stato, a livello assoluto, la cosa più difficile da filmare. Per motivi principalmente di sicurezza, io non potevo andare sugli incendi. Quasi sempre ci sono andati Tommaso ed Alessandro, perché l’elicottero non poteva portare troppe persone. Poi un giorno Tommaso mi ha detto: “Tu dovresti venire una volta sull’elicottero, respirare un po’ l’emozione che c’è, perché è una cosa unica e devi sentirla per poterla montare”. Quindi son andato sull’elicottero e la mia visione è radicalmente cambiata. Da fuori, quando vedevo le riprese dicevo: “ dovrebbero essere più stabili, le vorrei fatte in un certo modo”, poi ho capito che, quello che abbiamo girato, è così proprio perché è impossibile da decidere e prevedere, è una situazione di azione pura.
Un’altra cosa difficile è stata far dire alle persone, in particolare quelle del corpo forestale, come stanno le cose. Ci hanno raccontato più volte perché viene ‘messo fuoco’; quando un incendio è doloso c’è un motivo e c’è una lista pubblica di motivazioni, la puoi consultare perché ci sono state diverse indagini e c’è una lista con circa venticinque motivazioni diverse che spingono gli uomini a mettere fuoco. Però, probabilmente per motivazioni legali e di pudore, questa cosa non siamo mai riusciti a filmarla. Nel momento in cui spegnevamo la videocamera e finiva l’intervista, la persona della forestale cambiava volto e raccontava queste cose. Penso sia un po’ un peccato che il documentario non abbia qualcuno della forestale che racconti perché, all’effettivo, viene messo fuoco. Ma secondo me questa mancanza l’abbiamo ovviata mostrando un racconto sui piromani e su come viene ritrovato l’innesco di un incendio.
Vivere l’incendio tra sicurezza e approccio registico
Ritornando poi all’incendio, come dicevano gli altri, è paragonabile, in piccolo, a una situazione di guerra. Hai poco tempo e ad ogni secondo succede qualcosa attorno a te. Perché il fuoco è una dannatamente rapido, esplode come una carica della polizia, come tutte quelle situazioni in cui ti ritrovi a dover filmare e non hai tempo di fare la bella inquadratura. Certo ci provi, l’attitudine è quella di cercare una bella ripresa, però poi devi fare i conti con la tua sicurezza, anzitutto, e con l’ambiente attorno a te che è mutevole. Ricordo un giorno, per fare un semplicissimo cambio lente, una cosa immediata, abbiamo rischiato la vita, perché quei dieci secondi lì ti possono portare alla morte. Il vento cambia da un momento all’altro e se prima sta portando il fuoco lontano da te, in un secondo è lì, dritto nella tua direzione.
Ruben Gagliardini spiega come la sua visione, anche registica, sul progetto sia stata una conseguenza di ciò.
Non a caso, nel documentario, tutto quello che è spallaccio corrisponde al racconto del fuoco, dell’emergenza, dell’azione, mentre tutto quello che è fisso, a cavalletto, è un momento di quiete, dove hai il tempo di riflettere su quello che hai vissuto, sul dramma che ti ha attraversato.
Il DOP Tommaso Giantommasi aggiunge.
Il contesto della sicurezza è stato fondamentale sin dall’inizio, avendo seguito principalmente gli incendi dall’interno. La squadra della forestale ci ha fatto un piccolo corso su quello che dovevamo e non dovevamo fare. In poche parole, dovevamo sempre stare vicini al gruppo GAUF e mai andare a zonzo da soli perché, come ha detto Ale, il fuoco si muove molto veloce in base al vento.
In Sardegna ne tira tanto di vento, quindi in un attimo ti ritrovi davanti una colonna di fuoco, e lì sono guai, sia io che Ale abbiamo buttato via degli scarponi, perché il terreno dove camminavamo era incandescente e le nostre attrezzature non erano adeguate a sopportare quel calore. Ci siamo ritrovati i buchi sotto le scarpe, anche la videocamera che abbiamo usato non era adatta e spesso si spegneva.
Ricordo che abbiamo ripreso questa colonna di fuoco altissima, stavamo a venti metri di distanza e ci si bruciavano i peli delle braccia. Come dice Ruben, sembra davvero di stare in battaglia, in quei pochi secondi necessari al cambio lente siamo stati assaliti dalle colonne di fuoco e avevamo perso quelli della forestale. In un attimo ci siamo trovati a vagare all’interno dell’incendio da soli e capire dove andare non è stato semplice.
Ruben Gagliardini, quindi, ricorda un altro aspetto da non trascurare.
Un’altra questione è anche la qualità dell’aria, ricordo chiaramente quei momenti in cui ci vedevamo costretti a stoppare le riprese, era un limite fisico. Alessandro e Tommaso, che sono stati più di tutti sugli incendi, hanno iniziato ad accusare mal di gola e tosse, quindi c’era anche una nostra preoccupazione nel dire: “Che cosa sto respirando?”. In certi momenti la forestale metteva le maschere, erano coperti, loro invece avevano le FFP2, quelle del Covid e non sempre ti proteggono da tutto. Se avessimo voluto avremmo potuto filmare ogni giorno un incendio, là ce ne sono anche quindici al giorno. Però a un certo punto devi dire stop, perché non ce la fai, iniziano a mancare forza ed energia nel tuo corpo. Si può dire che è stata una sfida anche solo sopravvivere di fronte a tutto questo!
Vi ha cambiato in qualche modo questa esperienza? Cosa portate dentro?
Vivere a stretto contatto con il dramma dei fuochi in Sardegna, mettendo da parte lo scopo puramente documentaristico, è qualcosa che ha cambiato profondamente la troupe. Ne parla l’aiuto regista Nicola Sorrentino.
Secondo me, per quanto sia indispensabile approcciarsi sempre in modo analitico, quasi freddo e cinico, arriva un momento in cui è normale veder cadere questo muro che ti sei costruito, per tutta una serie di motivi, magari perché riconoscevi delle persone che sono state vittime del fuoco. L’esempio lampante ci fu quando andammo a fare delle riprese con il poeta. Nonostante fossimo in una situazione tranquilla, appena lui iniziò a narrare questa poesia legata agli incendi, alla morte, alla distruzione, noi ci siamo guardati ed eravamo tutti commossi. In quel momento sei carico di sensazioni ed è normale che poi ti colpisce, sei totalmente vulnerabile. Sono momenti che ti insegnano a farti una certa scorza e quelli della forestale lo sanno bene.
La stessa cosa è successa quando abbiamo intervistato la veterinaria, sentendo la sua storia legata agli animali. Abbiamo cercato il più possibile di dare voce a chi non ce l’ha, come gli animali e la natura. L’idea di vedere un albero distrutto e di percepire quell’albero come vivo, un elemento pari a te, è un aspetto estremamente sensibile, diretto e ha giocato un ruolo fondamentale a mio avviso.
Resistenza, la parola chiave di questo documentario
Se devo pensare a una parola che descriva quello mi ha lasciato questo progetto è ‘resistenza’, sotto vari punti di vista. In primis per il gruppo, è stato molto difficile rimanere uniti e appassionati al progetto per così tanto tempo, perché nulla va secondo i piani e lo sai, perché stai facendo un documentario, quindi imprevedibilità delle cose, costruire sul momento, non c’è una sceneggiatura. Sicuramente tenere sempre insieme unito il gruppo è stata una sfida. L’altra cosa è stata la resistenza di fronte al dolore altrui, di fronte alle situazioni di morte.
Il poeta chiama l’incendio una sorta di inferno in terra, perché ci sono i dannati, gli umani, che vengono aggrediti da questo fuoco, che scappano dalle fiamme provando a mettersi in salvo, e anche noi facevamo lo stesso. Quindi a raccogliere tutte queste testimonianze, sentire le persone che ti raccontano di esperienze inimmaginabili, di come hanno visto il bosco in cui sono cresciuti bruciare, piuttosto che la propria casa divorata dalle fiamme, se non riesci a sviluppare una tua resistenza, ti ritrovi ogni volta ad essere inerme, travolto da tutto questo.
Aggiunge un commento a questo proposito anche Alessandro Baroli.
Ricordo bene un momento, quando siamo andati a intervistare la veterinaria. Vedere quell’animale con i piedi totalmente carbonizzati nel cercare di fuggire dall’incendio è stato veramente un colpo al cuore. Poi però è chiaro che devi sempre mantenere un certo tipo di distacco, ma dal mio punto di vista, anche perché è stata la mia prima esperienza su un documentario e su un tema così forte, hai dentro di te questo pendolo che passa da un momento in cui riesci ad essere freddo, a un altro in cui devi esserlo per forza, anche se senti un’emozione diversa.
E ora? Qual’è lo scopo di quello che avete fatto?
Secondo me lo scopo di questo progetto fin dall’inizio è stato quello di sensibilizzare. Però se uno volesse andare oltre questa parola che spesso usiamo a sproposito, si tratta di far appassionare le persone alle tematiche ambientali. Gli incendi in Sardegna, secondo me sono quasi un emblema, però non è certo l’unica crisi in atto, viviamo in un mondo dove ogni giorno si vive un nuovo dramma. Quindi, secondo me, l’intento finale è quello di andare nelle scuole per far interessare i ragazzi, i nuovi che verranno, farli appassionare come ci siamo appassionati noi, come mi sono emozionato io quella volta che vidi One Day One Day. Raccontare tematiche sociali e ambientali in una forma che incroci arte, documentario e reportage, sperando di far scattare qualche scintilla.
Inoltre c’è l’intento di portare Fuochi ad altri festival, magari internazionali, perché ci sono altre regioni del mondo che sono interessate dagli incendi, come il Canada piuttosto che la Francia ad esempio. Non se ne parla mai al telegiornale ma iniziano ad esserci parecchi fuochi in giro, ed è importante analizzarne il motivo. Per quanto riguarda la distribuzione, Fuochi è stato scelto da ZaLab, una casa di distribuzione e produzione di documentari italiani che lo avrà sulla sua piattaforma.
Una riflessione che ho fatto a posteriori è che bisogna stare attenti, quando si fanno questo tipo di operazioni, a non spettacolarizzare il fuoco o i drammi di questo tipo. Perché in quel momento diventa intrattenimento ed è proprio questo uno dei problemi del rapporto con il fuoco, perché noi lo vediamo, da fuori, anche come un fenomeno affascinante e che dà spettacolo, mentre in realtà è una cosa vera, che genera morti, sofferenza, povertà. Quando brucia una montagna il rilascio di CO2 è devastante, un cane che si morde la coda.