Nel Programma del DieciMinuti Film Festival quest’anno anche Catch di Shingyu Kang, programmato in apertura delle proiezioni serali di Giovedì 4 luglio alle 21.00. Un interessante corto dalla Corea del Sud. Siamo nella Official Selection (per cortometraggi fino a dieci minuti) di un concorso internazionale per cortometraggi, animazioni e documentari della durata massima di dieci minuti, di cui Taxidrivers parla qui. Al Festival, ideato nel 2005 da IndieGesta a Ceccano, in provincia di Frosinone nel Lazio, Catch è tra quelli che vale la pena andare a vedere.
L’obbiettivo della macchina fotografica: topos cinematografico per eccellenza
Da La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock del 1954 a Il Sale della Terra di Wenders–Salgado (2014), passando per l’Antonioni di Blow Up (del 1966 o di Professione Reporter del 1975), il cinema si è da sempre interessato alla sorella fotografia. Che sia il motore narrativo dell’azione, o il soggetto stesso del film, quando la macchina fotografica entra in scena c’è sempre uno scarto semantico in più, un salto in profondità che ci fa riflettere con l’immagine oltre l’immagine. La meta-riflessione sul valore dell’immagine impressa dalla luce (e dal caso) sulla pellicola è inequivocabilmente il senso di questo cortometraggio sud-coreano del regista e fotografo Shingyu Kang.

Prima inquadratura che apre il corto ‘Catch’
Il regista
Shingyu Kang, classe 1991, è un fotografo e regista sud-coreano. Dopo essersi specializzato in regia cinematografica al Seoul Institute of the Arts, si è concentrato a lungo sul tema dell’insonnia come disturbo dell’era contemporanea, e forse questo spiega il notturno che fa da sfondo a Catch. Shingyu Kang ha vinto premi e partecipato a numerosi festival cinematografici nazionali e internazionali, tra cui il Dieciminuti Film Festival, e ha esposto fotografie in varie sedi.
Ecco le sue parole a proposito di una mostra fotografica personale, coerente fino all’impianto del suo corto, Catch:
Le emozioni dolorose e tristi di una persona vengono scaricate e accumulate nel profondo. Un giorno, quando tutte quelle emozioni si consumano, scompaiono e diventano uno spazio vuoto. Ma a volte è un problema perché è così vuoto, e a volte è un problema che le emozioni si siano accumulate per troppo tempo.
Ho espresso queste emozioni astratte nascoste negli esseri umani attraverso la fotografia.
Sinossi
In un corto di sette minuti, succedono davvero tante cose sul piano visivo, senza che ci sia bisogno di tanta luce, o di una sola battuta: il film è senza dialoghi.
Una ragazza si aggira nella notte, quasi insonne, in una vivace metropoli i cui moderni grattacieli, metropolitane e cultura pop si alternano a templi buddhisti, palazzi e mercati di strada: è Seul. Persone, animali, rifiuti… ogni cosa può essere oggetto dell’obbiettivo della donna che però è sempre più sconsolata, non trovando un soggetto degno di essere catturato, preso, raggiunto, afferrato. Catch, appunto.
Fiché, e siamo circa al min.3.5, la donna, interpretata da Suycon Lee, vede un uomo che sta per buttarsi nel fiume Han. Prevedendo l’azione, la donna sta per avvertire il 112 quando cambia idea e preferisce vivere l’attimo non come co-protagonista (cercando aiuto) ma come spettatrice, fotografando l’intero suicidio.

Frame dal corto. La donna sta per chiamare i soccorsi, poi ci ripensa…
La reazione della donna, rivedendo le immagini, è di estrema soddisfazione. Sul posto però, a poca distanza, una telecamera di sorveglianza riprende un uomo che, a sua volta, sta fotografando la donna in cerca di immagini “forti”, e riesce a cogliere il suo sinistro sorriso.
Linguaggio
La prima inquadratura dichiara la poetica del film. Una donna guarda fisso l’obbiettivo della macchina da presa. Dopo poco scopriamo che il suo obbiettivo è quello della macchina fotografica. Occhio dello spettatore, occhio della donna, occhio dell’obbiettivo della macchina e poi dell’uomo che guarda il vuoto, del secondo uomo che inquadra lei con la propria camera e, infine, anche quello della telecamera di sicurezza che congela tutte le presenze in scena. Il prisma narrativo moltiplica le possibilità e i punti di vista. Le condizioni di luce sono pessime, al limite, ma anche poca luce basta ad illuminare un grande paradosso. Il film non ha dialoghi, le riprese sono precise, pulite, e inanellano sguardi a distanza sempre più intensi ed espressivi. É interessante notare che lo sguardo della fotografa si posa su oggetti “imprigionati”: il senza- tetto sdraiato, il pesce nell’acquario, i rifiuti in fila sul cassonetto, la testa di pesce, lo specchio stradale parabolico deformato da un incidente. Sarà il volo del sucida a permetterle di esplodere una sequenza di scatti in movimento.
Al centro l’occhio della macchina da presa
Il regista, che in questo caso è anche operatore di macchina e montatore, sceglie il tema della fotografia istantanea per guidarci nella sua riflessione sul mondo contemporaneo. In un sofisticato gioco di specchi, chi guarda deve sempre sapere di poter essere anche oggetto dell’osservazione altrui. Qui però siamo lontani da un’idea di denuncia degli smartphone e del loro abuso mediatico. Sì torna piuttosto all’idea dell’indagine del reale attraverso la mediazione di un mezzo di riproduzione tecnologico come la macchina fotografica.

6 punti di vista nell’inquadratura finale: la donna, la sua camera, l’uomo, la sua camera, la telecamera di sorveglianza sopra la sua testa, l’occhio del regista del corto, l’occhio dello spettatore…
E forse non è peregrina una riflessione più attuale sulla tensione presente nella penisola coreana dove, solo martedì 25 giugno scorso un razzo che stava spedendo in orbita un satellite spia nordcoreano, è esploso rivelando le intenzioni di Pyongyang. La riflessione si fa dunque più profonda e politica, in un mondo che rivela quanto l’esposizione mediatica della vita privata (come degli errori pubblici) sembra non essere più sufficiente a distinguere le vittime dai carnefici.
Un finale delicatamente tragico
La donna, alla fine del suo peregrinare, trova qualcosa di interessante da portare a casa: le immagini di un suicida. E mentre conserva di lui, grazie ad un teleobiettivo, il volto disperato, e diviene suo malgrado testimone di un tragico evento, qualcun altro ha già immortalato il suo sorriso, ulteriore macabro trofeo.

[…] qualcun altro ha già immortalato il suo sorriso, ulteriore macabro trofeo
É un film sulla relatività del reale, su come una disperazione possa sembrare piccola di fronte ad una disperazione più grande e su come oggi la felicità di qualcuno si regga sulla disperazione di altri, senza soluzione di continuità.
Ma, come abbiamo detto, si tratta anche di ri-definire il valore etico dell’immagine reale, documentaria, specie ora che siamo agli albori dell’AI. Per quale ragione il secondo uomo con la macchina fotografica ha rubato il sorriso della testimone? Quale piano ha in mente? Il vero finale è nelle mani degli spettatori, e del futuro.