Sono poche le parole al mondo che risultano complesse e intraducibili come “saudade”. Non è solo la nostalgia, termine al quale viene spesso associata, ma è la presenza dell’assenza (Gilberto Gil), di qualcuno o un qualcosa anche indefinibile. È una parola-concetto che esprime un caleidoscopio di sentimenti e che per portoghesi e brasiliani rappresenta un modo di essere e di sentire. Antonio Tabucchi la definì anche una nostalgia del futuro, accostandola al concetto dantesco di disio, nella sua sintesi tra dolore e desiderio. L’unico modo per trasmetterne il senso più profondo è attraverso l’immagine e la sua natura incorporea e analogamente ineffabile. Anch’essa, proprio come la saudade, prende vita da un’assenza (quella del corpo), di cui diviene impronta rendendola visibile, in un paradosso equiparabile. È da questa fascinazione che sembra originarsi Saudade, opera prima di Pietro Falcone, prodotto da IFA Scuola di Cinema nell’ambito del progetto IFA Glocal Film e presentato sabato 4 maggio al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
La via dei ricordi
Il documentario prende forma come un’intima conversazione tra il regista e sua madre Nilde, che dal Brasile sul finire degli anni ’90 si trasferì in Italia per amore. Un viaggio di rottura, per certi versi, fatto all’improvviso e quasi senza salutare, e al tempo stesso di ricongiungimento e di speranza, prodromo di nuovo inizio. Attraverso le immagini e i racconti iniziali emerge il tema ancestrale del viaggio e della partenza, che contiene in sé l’eterna sospensione tra futuro e passato. Non solo la proiezione in avanti, verso la meta, alla ricerca di una nuova casa, ma anche un senso immanente di perdita e distacco, un allontanamento da una parte di sé che appare ineludibile e indissolubile. Questa tensione in Saudade soggiace costantemente ai ricordi e una lieve malinconia si riverbera nei momenti di dolcezza e di intima quotidianità che accompagnano il fluire della memoria. Dall’infanzia di Nilde a quella di Pietro si svolge un ril rouge che segna l’anima del documentario, evocazione di un rapporto profondo modellato dai ricordi, che come in un mosaico si intrecciano tra filmati amatoriali del passato e immagini del presente.
“La sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma dell’immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso per l’immagine antica”, scriveva Giacomo Leopardi, e Pietro Falcone con Saudade cerca nel suo profondo attraverso la memoria della madre, dando nuova vita alle immagini e ai ricordi della propria famiglia, e ritracciando il loro percorso. I filmini amatoriali funzionano non solo come memoria sensibile di un’esperienza privata, ma anche come memoria collettiva, includendo lo spettatore nell’intima rievocazione del documentario. Un’espressione generata più che dalle parole e dai racconti di Nilde dai suoi silenzi, dai suoi occhi e dal suo volto (racchiuso spesso in primi piani ravvicinati) e nella continua relazione tra passato e presente, tra l’immagine e il fuori campo, tra assenza e presenza. Sullo sfondo rimane sempre il Brasile, l’origine di tutto (di Nilde, dell’amore tra lei e Marco, il padre di Pietro, della loro famiglia), presente anche quando è assente. Vivido nei ricordi e nell’anima.