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A walk in the park – CINEMA XXI (Concorso)

Amos Poe, una delle figure di primo piano del No Wave Cinema (1975-85), parallelo visivo dell’irrazionalismo vitale del punk esploso nell’East Village, si appropria di un tema che, apparentemente, avrebbe potuto tradursi in una sfida affascinante in termini di rielaborazione-riaggiornamento. Il cancro famiglia, impersonificato per eccellenza nel simbiotico e malato legame incestuoso (inconscio) madre-figlio, è al centro di A walk in the park, documento- documentario- biografia su Brian Fass

Pubblicato

il

 

Anno: 2012

Distribuzione: Lunchbox Pictures

Durata: 106′

Genere: Documentario, Biografia

Nazionalità: USA

Regia: Amos Poe

 

A walk in the park  e la falsa psichedelia

Esordisco nel Festival Internazionale del Film di Roma versione mülleriana dentro CINEMA XXI, araba fenice di Extra! L’altro cinema di passata gestione e concezione (sulla carta). Questa prima immersione nel concorso della sezione (sempre sulla carta) più innovativa del Festival, ha in realtà il sapore amarognolo e stantio di ricicli visivi, di tematiche abusate. La psichedelia, ossia ‘l’allargamento della coscienza’, che resa può avere nell’occhio filmico moderno? Che accezione contenutistica può rivestire? Amos Poe, una delle figure di primo piano del No Wave Cinema (1975-85), parallelo visivo dell’irrazionalismo vitale del punk esploso nell’East Village, si appropria di un tema che, apparentemente, avrebbe potuto tradursi in una sfida affascinante in termini di rielaborazione-riaggiornamento. Il cancro famiglia, impersonificato per eccellenza nel simbiotico e malato legame incestuoso (inconscio) madre-figlio, è al centro di A walk in the park, documento- documentario- biografia su Brian Fass (direttore della fotografia dello stesso) e la sua psiche ‘deformata-piegata’ dagli effetti collaterali (genetici e sociali) delle relazioni familiari, simboleggiate nell’indissolubile e morboso legame psicologico con la madre Alice. Una discesa nell’abisso di un io (Fass) letteralmente disintegrato nella depressione, nel consumo di farmaci assunti da 23 anni, incapace di dare un senso e un’identità a se stesso scisso dalla sua progenitrice, di cui ne assume man mano che la sua giovinezza avanza l’identità, nel farsi carico (naturalmente) di una depressione marchiata nel dna della madre (e proprio). Tra messa in scena, riproduzione di filmini amatoriali ritraenti porzioni di vita girati dallo stesso Fass in gioventù, fotografie, ed ingresso nel campo del nostro protagonista intervistato nella sua condizione attuale, Amos Poe imbastisce un viaggio che poco ha a che fare con uno “psichedelico ritorno alla vita prenatale” (così Fass), anche solamente visivo. Monco completamente di originalità, di una rielaborazione di psichedelia cinematografica capace di rivelare per immagini e contenuto il senso moderno di un mito ancestrale, nella propria degenerazione di frutti, di rimedi e cure umane offerteci dall’Evoluzione (impotente nell’interrogarsi sulle cause, capace solo di offrire lo stordimento e l’alienazione farmacologica), il racconto per immagini di Poe sovrabbonda, ridonda in cliché visivi (a tratti al limite dell’irritante) di bassa fattura nell’underground a cui sottende, tra distorsioni, simboli, richiami letterali (anch’essi stereotipati nella scelta degli scrittori e delle citazioni utilizzate e del modo di impiegarle, con saccenza e prive di alcun senso, neppure estetico, puro sfoggio di erudizione spicciola), sovrapposizioni verbali, che non arrivano a toccare se non in lontananza, l’anima di una perdita di identità e realtà, l’anima di una dipendenza.

Psycho di Hitchcock, al quale il regista ricorre come ‘contraltare-battitore in risposta’ è il miglior esempio di fallo-caduta autoriale: da tale parallelo emerge evidentissima la modernità e la superiorità di verità dei fotogrammi hitchcockiani, i soli e unici realmente psichedelici di questa visione. Altra prova dell’inconsistenza di A walk in the park, la carica di aberrazione fortissima suscitata unicamente dai filmati amatoriali e dalle foto familiari in cui veniamo immersi, un pre-visivo (non creato ex novo, né impostato ex novo nella struttura narrativa), di per sé, in quanto tale, devastante nel rivelare la claustrofobia psicologica-fisica che un nucleo familiare è in grado di generare: i suoi componenti ci appaiono dei veri e propri mostri nei riti più comuni: un compleanno, un abbraccio, una comune conversazione. Sadismo, iperprotezione ricatto, frustrazioni rivestite in disparità di trattamento tra fratelli, scientemente compiute da una madre, e infine, una caduta nell’abisso che trascina-disperde tutti gli infetti dal legame di sangue… La passeggiata nel parco, primo foro d’aria da cui Brian Fass comincia a riappropriarsi di un reale destinato inevitabilmente ad essere fruito solo a pezzi, ha il sapore di un grande inganno visivo.

Maria Cera

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