Disponibile su MUBI in una rassegna dedicata ad Aki Kaurismäki, Le luci della sera (Laitakaupungin valot) è il film di chiusura della cosiddetta “trilogia dei perdenti”, inaugurata con Nuvole in viaggio (1996) e proseguita con L’uomo senza passato (2002). Presentato in concorso al Festival di Cannes 2006, ottenne consensi di critica, ma non riconoscimenti da parte della giuria ufficiale; si qualificò tuttavia come pellicola di candidatura agli Oscar 2007 per la Finlandia, salvo poi l’intervento dello stesso Kaurismäki che ritirò il film perché contrario a tale partecipazione.
Nella filmografia del cineasta finlandese Le luci della sera è la pellicola che si imparenta di più con l’ultimo e magnifico Foglie al vento, per la dimensione concessa alle macchinazioni beffarde del destino, ma anche per l’accezione tutta umana della speranza offerta dall’incontro con l’altro, nelle cadenze di un casta affinità amorosa.
Ancor più pessimista e asciutto delle narrazioni precedenti, Le luci della sera rappresenta il tentativo più compiuto e felice da parte di Kaurismäki di avvicinarsi all’arte dell’amato Charlie Chaplin (omaggiato fin dal titolo che richiama Luci della città) e di accarezzare le corde trascendentali dell’altro insuperabile modello, Robert Bresson. In particolare, nella galleria degli inafferrabili, silenziosi e poco fortunati personaggi inventati da Kaurismäki, il protagonista Koistinen si staglia sopra tutti per una stoica rassegnazione in bilico tra sconfitta ed eroismo che non può lasciare indifferenti.
Sinossi
A Helsinski lavora come guardia giurata notturna Koistinen (Janne Hyytiäinen), uno scapolo schivo e di poche parole, la cui unica amicizia è quella con Aila (Maria Heiskanen), venditrice in un chiostro ambulante. Una sera in un locale viene abbordato da Mirja (Maria Järvenhelmi), una bionda procace. Invaghitosi della donna, si fa accompagnare da lei durante uno dei turni di perlustrazione nel centro commerciale per cui lavora. Koistinen ignora che Mirja sia un’adescatrice, pronta ad approfittarsi del suo incarico e agli ordini di un malavitoso di cui è l’amante.
Sfruttando l’ingenuità di Koistinen, Mija permette al suo capo di far attuare una rapina notturna in una gioielleria del centro commerciale, facendo cadere la colpa sulla guardia giurata. Indagato per complicità con ignoti e sottoposto a processo, Koistinen si professerà innocente, ma non rivelerà l’identità dei veri colpevoli, nonostante una dura condanna. Uscito dal carcere con la condizionale, subirà ancora soprusi e ingiustizie dalla stessa gang, ma accetterà finalmente il supporto e l’amore di cui ha bisogno.
Le fioche luci della città
Ancor più che nei film precedenti, lo spazio del dramma, Helsinski, da sempre teatro sonnacchioso dei rovesci della sventura per i personaggi del regista, si assottiglia, si defila, si astrae ancor di più. Laconica come la fauna umana che la abita, la capitale viene inquadrata da Kaurismäki in ampie vedute spettrali sui grattacieli oppure, con una notevole ellissi spaziale, in un sottobosco parcellizzato e anonimo: la gioielleria, un alloggio popolare, un chiostro di fast food.
Persino i bar e i pub, emblema del romanticismo rétro del cinema di Kaurismäki, si raffreddano in vesti moderne e asettiche, in cromatismi meno melodrammatici, coerentemente con la sordida trama di tradimenti e inganni ai danni di Koistinen. L’ambiente, urbano o domestico, si carica così del male di vivere dei cittadini, della solitudine che gravita intorno alla precarietà (anche lavorativa) della loro sopravvivenza, della (quasi) indifferenza collettiva.
Eppure, anche in questi spazi disadorni e ingrigiti, Kaurismäki sa apporre la sua firma di autentico cantore degli esclusi con un talento visivo che lavora sui dettagli, come un vaso di fiori su una parca mensa che si contrappone ai lindi, laccati e vuoti interni di un appartamento di un untuoso criminale. O le tonalità purpuree dei costumi nella seconda parte del film, a presagire l’approdo a nuovi sentimenti, tra un tango di Carlos Gardel e l’altro (Volver e El día que tu me quieras).
Il primo tra gli ultimi
Difficile reperire al cinema un personaggio di fantasia più testardamente inerte e placidamente arrendevole di Koistinen, accigliato, quasi impassibile e chiuso in se stesso, che si emancipa dalla categoria degli stolti (o degli idioti, per dirla con Dostoevskji) solo per qualche rado, sacrosanto moto di indignazione e ribellione contro i suoi aguzzini. Così naïf da farsi raggirare da un’adescatrice e sordo alle riguardose manifestazioni di affetto di Aila, è, in orgoglioso silenzio, un’isola senza appigli anche nel contesto lavorativo, dove viene schernito dai colleghi.
Così anomalo da essere quasi ammirevole per la sua resistenza al vittimismo, il sua coriaceo spirito di rassegnazione verso un sistema guasto e irrecuperabile (vedi i primi piani degli inflessibili giurati in aula) e la stoica indolenza a suo modo decorosa, il protagonista de Le luci della sera è un austero martire della sopraffazione e dell’avidità occidentale, un antieroe che nella rocciosa pacatezza conserva qualcosa di grande, un nordico e prestante Don Chisciotte introverso e disincantato.
Diario di un guardiano di città
Kaurismäki non manca di suggerirne la dimensione ‘altra’ e statuaria con alcune strategie registiche. In due sequenze distinte si crea infatti un preciso parallelismo tra Koistinen e Mirja. Se il primo, incarcerato, viene ripreso mentre lava i pavimenti della prigione, la seconda, fonte delle sue sciagure, viene a sua volta inquadrata mentre passa l’aspirapolvere nel lussuoso appartamento del suo boss e amante.
Più che un caduta di stile per una truffatrice di alto bordo, un’evidenziazione da parte di Kaurismäki su come il potere e la ricchezza facile degradi chiunque cerchi di appropriarsene, anche se da comprimario. Oppure su come la femme fatale, sovente riluttante a compiacere l’intrigo dell’amante ai danni di un compassionevole fallito, sia solo una diversa vittima sfruttata da un altro sistema meno istituzionale, quello degli “affari” sporchi.
“Nella vita vince chi perde”
Il regista iscrive il personaggio anche sotto la lente di lettura più profonda e allegorica, richiamando la poetica di uno dei suoi numi tutelari, Robert Bresson, senza tuttavia voler avanzare speculazioni intellettualistiche. Non solo le scene nella cella carceraria propongono una messinscena di motivi che richiama Un condannato a morte è fuggito, capolavoro del 1956, ma nella seconda parte del film, ben più drammatica, i tagli di luce del fidato direttore della fotografia Timo Salminen paiono richiamare l’universo figurativo del cinema “trascendentale” del regista francese.
Accenti metafisici in accordo all’ascetismo formale di Kaurismäki, a cui pare aggiungere ulteriori significazioni un dettaglio appeso alla parete del dormitorio comune: un’immagine della crocifissione di Gesù, i cui principi etici non appaiono troppo distanti da quelli, tutti laici, di Koistinen. D’altronde spiegò Bresson all’uscita del suo Processo contro Giovanna d’Arco (1962):
“Secondo una legge umana, nella vita vince chi perde; per vincere bisogna perdere fino all’estremo limite, se sei vuole accedere al regno delle grandi cose, anche terrene”.
Le luci dei maestri all’imbrunire dell’Occidente
Con Le luci della sera il regista finlandese puntella il plot di elementi thrilling, esaudendo le inclinazioni verso il genere noir e gangsteristico già sperimentate nella sua filmografia, sotto l’ascendenza di ammirati registi come Jean-Pierre Melville e John Huston, ma anche della pittura di Edward Hopper. Con uno sguardo inedito però si affaccia anche all’immaginario di Alfred Hitchcock, di cui è una riconoscibile parvenza l’algida, bionda e ambigua Mirja, acconciata, seppur senza classicità divistica, come Kim Novak e Tippi Hedren.
Dietro l’omaggio all’amato Chaplin, conclamato fin dal titolo allusivo ed espresso in un sostrato di altruistica sensibilità verso i dimenticati e i perdenti, Kaurismäki dosa la sua temperata ma calibrata scrittura con venature di ironia finlandese, paradossale, amara e quasi sommersa, inconfondibile. Basterebbe citare la scena in cui Koistinen si presenta al direttore della banca per un prestito con la sua licenza di studi per rendere la levatura dello sguardo umoristico e affabile dell’autore verso il suo alfiere dell’empatia e della solidale ragionevolezza.
Il Teorema di Kaurismäki
Le luci della sera diventa quindi una parabola discendente, ma non priva di speranza, sulla dignità del rimanere umani, abbattuti ma moralmente integri nel naufragio di una civiltà indifferente e opportunista, dove la comprensione e la tolleranza risiedono solo tra le anime bistrattate e perse.
Non c’è però retorica compassionevole nel film di Kaurismäki, che nei primi piani silenti e sfumati dei suoi interpreti, nel linguaggio in sottrazione del loro corpo sa colorare piccoli spiragli di salvezza. Nella risata distesa di Koistinen tra carcerati nell’ora di aria, nel soccorso di un piccolo africano immigrato (deus ex machina) oppure in una mano amorevole che afferra la sua nell’ultima inquadratura. Quasi un intervento della Grazia proveniente dal cinema di Robert Bresson e che fa eco alla celebre chiusura di Diario di un ladro (1959), ispirazione per tanti registi tra cui Paul Schrader. Ma qui l’ausilio non può che provenire dal basso, in una realtà tutta prosaica che Kaurismäki sa far rifulgere qua e là di poesia.