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Lucca Film Festival

‘Sasha’ di Vladimir Beck al Lucca Film Festival, 15 anni e non sentirsi a casa

In un potente dramma dell'assenza, la quindicenne Sasha, orfana di madre, sembra orfana di tutto: della casa, del corpo, della sessualità

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Sasha in primo piano da vicino

È una storia che viene dal freddo, Sasha di Vladimir Beck, giovane regista, sceneggiatore e montatore russo in concorso al Lucca Film Festival. Il freddo è quello dell’assenza: la protagonista quindicenne è orfana di madre, vive col nonno, rigetta il padre. Lo ricusa anche quando il genitore, che non vede da due anni, viene a prenderla per farla trasferire da lui (il nonno si sta ammalando). Il disgelo col padre non funziona, la ragazza reagisce con gesti notevoli: si taglia i capelli, spaccia per gioco, si finge maschio, scappa di casa, vagabonda in case vuote. Incontrerà Max. Soprattutto, incontrerà altre inquietudini.

Anche se ruvido nello stile realistico, con la sua tavolozza autunnale e stinta Sasha è un film che sa scaldare per le emozioni ora trattenute, ora deflagranti. Un dramma psicologico che implode con potenza.

Il trailer di Sasha

La trama di Sasha

La quindicenne Sasha si trasferisce dal padre, praticamente uno sconosciuto che non vede da anni; nessuno dei due è contento della situazione. Per protestare contro questa decisione presa dagli adulti, Sasha si rade la testa e scappa di casa. Smarrita e con i capelli corti, viene scambiata per un maschio da Maxim e Mysh, due ragazzi del posto. Così, all’improvviso, la ragazza ha la possibilità di entrare in un nuovo mondo affascinante e a volte pericoloso, quello dei suoi coetanei. Sasha finge di essere un’altra persona, senza sapere dove la porterà questo inganno.

La ragazza selvaggia

Né i film di adolescenti turbati, né quelli di turbolenti rapporti padri-figli sono oggetti cinematografici particolarmente originali. Il capello corto di Sasha (Polina Fedina) – che, pure, nei primi minuti, è una ragazza selvaggia dai capelli lunghi, che interagisce vitale col nonno – ricorda persino l’Antoine Doinel di Truffaut, e tutta l’inquieta gioventù che incassa quattrocento e più colpi dal destino. In fondo, però, va riconosciuto che per Sasha il regista Vladimir Beck ha il merito di aver rinvenuto insieme alla co-sceneggiatrice Anna Efimova le proprie dignitose chiavi di storytelling. Il malanno originale è l’assenza della madre. L’orfanato diventa uno stato mentale. Il film è una matrioska di assenze, una potenza – nel senso di moltiplicazione per sé stessa – dell’assenza.

Le chiavi di casa

Assente è la casa. D’altro canto il film comincia con la quindicenne che dorme in una casa in fabbricazione, scoperta assonnata da un bambino che accompagna la mamma in visita allo stabile per un possibile acquisto (il dialogo della madre con l’agente è fuori campo). Ma Sasha è vagabonda nell’anima. Anzi, è randagia. Sasha è un film di randagismo. Quando Max (Stepan Belozyorov) porta a casa Sasha, dopo averla incontrata la sera, incrociando il suo bighellonare col peregrinare di lei, la madre dirà del figlio alla ragazza:

Sai, quando era piccino portava sempre animali randagi a casa, anche se era un bambino cagionevole.

Qua e là, sprazzi di case che non sono case. Quella del nonno, l’unica forse amata, è presto violata dal padre; quella del padre è rifiutata; quelle vuote sono rifugi occasionali, dove buttare un sacco a pelo o improvvisare un accampamento. Un po’ per fuga, un po’ per gioco.

Sasha ancora coi capelli lunghi col nonno

Sasha, la protagonista insieme al nonno, nell’unico posto forse avvertito come casa

Neanche quella di Max è casa. Nonostante Sasha sia ospitata protettivamente (“puoi venire qui quando vuoi“), e vi dorme pur di non tornare dal genitore, è una habitat che persino Max rifiuta, allontanandosene continuamente, nel girovagare tra i festini o correndo disperato sotto la pioggia.

Il coming of body

Assente è anche il corpo. Basta guardare il poster del film per capire l’opacità del corpo di Sasha: l’immagine della quindicenne nuda offuscata.

I capelli tagliati negano l’identità di genere, così come la fascia che avvolge il seno. I lividi raccontano di una sofferenza che si è fatta fisica. Il sesso è un racconto degli altri, un amplesso spiato, un desiderio inconfessato. I corpi che ci sono, sono quelli degli altri. Max, statuario, è scoperto di notte, impalato, sonnambulo; Sasha lo sfiora come se fosse un manichino o una statua greca. Volodja, collega del padre, è spesso a torso nudo davanti a Sasha – anche se non immaginiamo temperature tropicali in Russia. Sembra quasi che si giochi su questo il coming of age. Il film, che si inserisce nella tradizione longeva e anche recente del dramma russo (Il ritorno, 2003, Andrej Zvjagincev; La ragazza d’autunno, 2019, Kantemir Balagov) sarebbe da far spiegare a uno psicanalista più che a un critico cinematografico. I due giovani protagonisti brancolano nel vuoto dei propri disorientamenti; ritrovarsi vuol dire tornare a vivere la fisicità degli spazi (la casa) e la fisicità di sé stessi (il corpo). Poi, magari, arriverà, in faticoso equilibrio, la mente. Max sembra negare la propria omosessualità latente, Sasha semplicemente la propria sessualità. Si tratta di ritrovare la materia, carne: di un posto da vivere, di un corpo senziente.

Torna a casa, Sasha

Ecco, allora, che la macchina da presa deve impegnarsi per afferrare le carni. Spesso, l’inquadratura si tiene guardinga, mantenendosi a distanza. Capita in un dialogo al ristorante tra la ragazza e il padre, con quest’ultimo che la lascia con un prevedibile appello: “torna a casa“, e le piazza le chiavi sul tavolino. In altri casi, la camera a spalla si approccia, pedina Sasha, evocando in analogia i pedinamenti del padre poliziotto e del collega del Volodja. In questo tentativo di riportare Sasha a sé, allo sguardo spettatoriale, a volte la macchina da presa resta indecisa, come quando si avvicina e si allontana nella battaglia dei cuscini con Max. Che poi diventa, per gioco, un duello di scherma, con spade invisibili.

Passa il film a schermare le proprie emozioni, Sasha. Ma se lo spettatore arriva a capirle – se sensibile, anche ad empatizzare – è segno che la sceneggiatura ha fatto implodere tutto col fuoco lento di una scrittura autoriale, credibile. Che torni o meno a casa, Sasha, lo lasceremo scoprire a chi possa e voglia guardare il film acerbamente bello di Vladimir Beck. Ma una cosa si può dire: alla fine, arriviamo a conoscerla. Sasha, per noi, è casa.

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Sasha

  • Anno: 2023
  • Durata: 106'
  • Genere: Dramma
  • Nazionalita: Russia, Italia
  • Regia: Vladimir Beck