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Il Cinema Ritrovato

Sfumature di desiderio: una retrospettiva su Rouben Mamoulian al Cinema Ritrovato

Il Festival di Bologna ricorda il talento del regista georgiano trapiantato a Hollywood negli anni Trenta, dove si impose, con censure e resistenze degli studios, come atipico sperimentatore del sonoro e del colore

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La 37a edizione del Cinema Ritrovato ha ripercorso la carriera filmica di Rouben Mamoulian (1897-1987) attraverso la rassegna Sfumature di desiderio, con il merito di far riscoprire l’integrità artistica e la forte personalità autoriale di un regista a cui il cinema classico statunitense deve parecchio e a cui riconobbe troppo poco.

Innovatore millimetrico e intellettuale europeo non allineato al sistema, attivissimo nei teatri di Londra e Broadway per spettacoli d’opera, di danza e musical, dove impresse una spiccata ricerca estetica. Nonostante i successi al cinema, gli furono poi riservati rifiuti e distanziamento dall’industria hollywoodiana, troppo ottusa di fronte alla sua sfibrante sperimentazione visiva di cromatismi e plasticità scenografiche, sempre integrate alla mobilità della cinepresa.

Nell’immaginario dei cinefili lo si ricorda per l’iniziatico ed epocale uso del colore in Becky Sharp (1935), per la migliore trasposizione di Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) dal classico di Robert Louis Stevenson, la sublime vetta recitativa della diva Greta Garbo ne La regina Cristina (1933), l’orchestrazione elegante e avvincente delle scene d’azione nell’iconico Il segno di Zorro (1940), la tavolozza pittorica del tragico ed estetizzante Sangue e Arena (1941) con Tyrone Power.

Ecco quattro titoli rappresentativi proiettati al Cinema Ritrovato.

Applause (id., 1929)

A New York una ballerina di burlesque destina la figlioletta al convento per sottrarla a un’infanzia di precarietà; anni dopo la giovane si ricongiunge alla madre e, innamoratasi di un amorevole marinaio, deciderà di sacrificare le nozze per stare accanto alla donna, sul viale del tramonto nello show business.

Una pellicola di primati: strabiliante opera d’esordio e uno dei primi film sonori della storia del cinema dopo Il cantante di jazz. Scattante e modernissimo nell’uso della cinepresa, è una parabola sulla corruzione della metropoli e sull’avido ambiente dello spettacolo (di cui si svelano i retroscena dietro le quinte), che svecchia schemi ottocenteschi con immagini sovraccaricate ed eccitanti, montaggio di influenza eisensteiniana, simbolismi ammiccanti, binaria configurazione spaziale, abilissimi raccordi sonori: girato nel 1929, Applause non sfigurerebbe storicamente per ritmo sincopato (figlio dell’età del jazz) e dinamismo dei personaggi nel cinema degli anni successivi.

La regina Cristina (Queen Christina, 1933)

Proiettato sul grande schermo moltiplica esponenzialmente di sequenza in sequenza la sua fragranza leggendaria sprigionata da Greta Garbo, che fu secondo Federico Fellini

la fata severa di un ordine religioso chiamato cinema.

La regina Cristina stravolge con licenze romanzesche e riduttive la storia della regina svedese regnante nel XVII secolo, contraria a un matrimonio politico e orgogliosa della propria indipendenza, mentre la regia si presta fieramente al divismo dell’attrice, alla carica autobiografica del suo personaggio, al suo regime di sguardo femminile dominante, ma tutt’altro che insensibile all’amore.

Eppure Mamoulian può e sa imprimere la sua estetica di un cinema sensoriale (di pizzi, pellicce, velluti) e il suo stile europeo di accumulo figurativo (décor, cerimoniali di corte, scene di masse), chiudendo il suo film pseudo-storico fascinosamente impolverato con la mera superficie diafana di un primo piano (“un foglio di carta bianco”, lo definì Mamoulian): quello ovviamente della Garbo, un’inquadratura che per ieratica e commovente compostezza, nonché enigmatica bellezza, richiese innumerevoli tentativi di ripresa.

Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1940)

Avventura, amore, lotta e travestimenti: terzo film hollywoodiano su don Diego Vega (dopo quelli con Douglas Fairbanks), virtuoso spadaccino dell’Accademia militare nella Madrid del XIX secolo, ritornato per noia dalla famiglia a Los Angeles, dove il padre ex sindaco è stato spodestato dal nuovo governatore che vessa i cittadini con ingiustizie. Seguono duelli e colpi di potere a nome del popolo oppresso per mano di don Diego, mascherato col nome di Zorro, ma anche il romantic affair con la bella Lolita.

The Mark of  Zorro consacra ancor di più lo status di icona del personaggio tratto dal romanzo a puntate di Johnston McCulley, grazie alla messinscena di Mamoulian che fa traspirare oggetti e dettagli d’epoca tangibili e desiderabili, sentimenti di passione, insofferenza, coraggio, spavalderia e ironia; un avvincente prodotto di genere (cappa e spada) che si staglia per le fluide e scoppiettanti scene d’azione, il gioco ammiccante del travestimento e delle identità da riaffermare, le ombre che flirtano con le luci, le elaborate scene di massa, l’adesione ammiccante di Tyrone Power, il divertimento complessivo che, con la denuncia dei soprusi dei potenti e dei corrotti, non è fine a se stesso.

La bella di Mosca (Silk Stockings, 1957)

Ultimo film di Mamoulian, con cui il regista armeno si appropria definitivamente dei primi passi artistici a lui congeniali, quelli musicali (che attraversano in modo carsico tutta la sua filmografia): un musical in Technicolor (la cui tecnica cromatica viene anche esaltata in una sequenza cantata, a scanso di naufragi di fronte al nuovo medium televisivo), con Fred Astaire e Cyd Charisse, coppia già rodata da Vincente Minnelli, qui ancora in stato di grazia danzante e in dolce sintonia.

Frizzante, leggiadro e dignitosamente frivolo adattamento musicale di Ninotchka di Ernest Lubitsch, racconta la storia di un compositore sovietico a Parigi che sta musicando una pellicola su Guerra e pace, richiamato a Mosca perché corrotto dalle amenità occidentali; quando anche i tre commissari inviati a riportarlo in patria si fanno travolgere dal lusso della capitale, giunge dalla Russia Ninotchka (Charisse), bella e severa commissaria che deve ricondurre tutti sulla retta via, ma che cadrà tra le braccia di Steve Canfield (Astaire), un produttore statunitense.

Finanziato dal benemerito Arthur Freed con le musiche di Cole Porter, Silk Stockings (titolo eponimo per l’estetica di Mamoulian) celebra gli emblemi dell’immaginario del regista, al termine di una carriera interrotta presto da Hollywood: le calze di seta, i passi dei ballerini, il sorriso di una felicità voluttuosa ma liberatoria.

Percorso da una vena satirica anti-sovietica, ma anche da un retrogusto malinconico sulla Hollywood al crepuscolo, questo colorato e tenue canto del cigno di un decennio di cinema è come lo stappo di una bottiglia di fresco champagne, le tovaglie di fiandra di un ristorante parigino, una boccetta di profumo floreale-cipriato cosparso in un atelier di alta moda.

 

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