‘Tengo sueños eléctricos’, intervista a Valentina Maurel: alla scoperta del film pluripremiato a Locarno
La cineasta costaricana, all'esordio al lungometraggio dopo due corti, racconta in un'approfondita intervista inedita i dettagli del film che a Locarno '22 ha vinto per la migliore regia, la migliore attrice (Daniela Marín Navarro) e il miglior attore (Reinaldo Amien Gutiérrez)
Quello di Valentina Maurel, regista costaricana residente in Belgio, sarà sicuramente un nome da tenere in considerazione nel panorama cinematografico dei prossimi anni. Non capiterà spesso, infatti, che in un festival della storia e del livello di quello di Locarno un film metta in fila tre premi di peso come quello per la migliore regia, la migliore attrice e il miglior attore. È quanto successo lo scorso agosto a Tengo sueños eléctricos (I Have Electric Dreams), film che la talentuosa regista, all’esordio nel lungo dopo due corti, ambienta nella sua San José, capitale di Costa Rica – “brutta e caotica”, mi dice nell’intervista, ma che non sa fare a meno di amare.
Stessa chiave di lettura si può applicare anche i due protagonisti, figlia e padre, Eva (Daniela Marín Navarro) e Martín (Reinaldo Amien Gutiérrez). Quest’ultimo è violento, anche verso sé stesso, ed ha dovuto abbandonare il nido familiare, lasciando Eva e la sorella minore con una madre che la ragazza mal digerisce. Anche se “sporco e cattivo”, o brutto e caotico, Eva non può fare a meno di amare il padre. E non può fare a meno di amare, in generale: perché il suo corpo da adolescente cambia, spingendola a sogni sudati, elettricità a fior di pelle, primi baci e primi amplessi. Con tanto amore, tanta violenza, tanti ormoni, il mix non può che essere esplosivo.
Mentre Tengo sueños eléctricos si affaccia nelle prime sale europee (Belgio, Portogallo, Grecia), oltre che nella stessa Costa Rica, ho avuto la possibilità di parlare con Valentina Maurel. Più un rito propiziatorio che un’intervista: un tentativo di attirare la distribuzione italiana per far sì che il film arrivi anche nelle nostre sale. La parlata è stata lunga ed elettrica, esplorando non solo il film e i suoi temi (la relazione padre\figlia, l’adolescenza, gli adulti che non crescono, l’odio-amore in famiglia e tanto altro), bensì delineando una vera e propria teoria del cinema. Che speriamo presto di vedere praticata in altri film della regista costaricana.
Il trailer di Tengo sueños eléctricos
Tengo sueños eléctricos è prodotto da Wrong Men (Belgio) e Geko Films (Francia), in coproduzione con Tres Tigres Films (Costa Rica). Le vendite internazionali sono curate da Heretic.
Dopo aver visto Tengo sueños eléctricos, mi sento di dire che la protagonista del tuo precedente cortometraggio Lucía en el limbo mi è sembrata davvero in un limbo, nel senso che i temi di quel corto, dalla sessualità alla ricerca di sé, li hai ripresi e sviluppati in questo tuo esordio al lungo. In che modo?
È sicuramente vero che Tengo sueños eléctricos si pone in continuità rispetto a Lucía en el limbo, ma diro di più: è in continuità anche col mio primo corto, Paul est là, una produzione francese. Anche in questo corto si parlava di una relazione tra padre e figlia, ma si trattava di un’opera di sperimentazione estetica, quindi, lo ammetto, un poco più fredda. Quello che ho fatto nel mio primo lungometraggio è stato mescolare i temi di questi due corti, nello stesso modo in cui, d’altronde, forse anche nel mio prossimo film continuerò a parlare di temi simili. Il punto è che non scelgo i temi da sviluppare, ma piuttosto sento che loro s’impongono a me.
Li scegli anche per esperienza autobiografica?
Ciò che volevo raccontare in Tengo sueños eléctricos è in effetti quanto ricordavo della mia adolescenza, perché a 19 anni di età me ne sono andata di casa. All’inizio pensavo di realizzare un film che parlasse un po’ di quella classe media a cui appartengo per nascita, perché avverto che è stata poco rappresentata nel cinema, ma anche perché come cineasta mi sento più a mio agio nel parlare di cose di cui sono a conoscenza. Allo stesso tempo, sento che nell’America Centrale a volte si tendono ad evitare certi temi perché considerati ordinari, persino banali. Per me niente è banale, nessuna storia lo è. Ho quindi intrapreso la scrittura senza sapere esattamente in che direzione mi stessi avviando, poi la storia si è concentrata soprattutto sulla relazione padre-figlia.
Non si tratta di un soggetto inedito al cinema. Qual è stata la tua particolare angolatura?
Ammetto sempre che non avrei mai voluto parlare della figura del padre perché trovo che ce ne siano tante e importanti nel cinema, ma non ne ho potuto fare a meno. Inoltre, anche se la relazione padre\figlia è stata già esplorato, non ho la sensazione che questo sia stato fatto nella prospettiva della trasmissione della violenza o della complicità nella violenza, e che la violenza si associa sempre al versante maschile. Così, è a partire da tutto questo che ho voluto sviluppare il film, mentre temi come quelli del paesaggio urbano, in particolare di San José, la classe media, il mondo bohémien, la cultura, la poesia – tutto questo è venuto dopo.
QUESTIONE DI FIDUCIA
Ho avuto la possibilità di vedere la sessione di domande e risposte al Festival di Locarno e ho notato che c’è una parola che fa capolino più volte, sia nelle domande che nelle risposte: fiducia. È grazie ad essa che sei riuscita a lavorare in piena sintonia col tuo cast, generando quella carica emotiva che pervade così intensamente il film. In che modo hai forgiato questo sentimento di fiducia reciproca con le attrici e gli attori di Tengo sueños eléctricos?
Ciò che volevo era lavorare molto tempo prima delle riprese con gli attori, vale a dire che ci conoscessimo in anticipo, non necessariamente provando le scene, bensì passando del tempo insieme. Inoltre, non volevo sacrificare una ragazza giovane per fare questo film. Sapevo che la protagonista non sarebbe stata un’attrice professionista: non ne avevo trovate in Costa Rica con formazione di quel tipo, quindi sapevo che sarebbe stata una ragazza che non aveva mai recitato. Dovevo allora fare in modo che avesse la mia fiducia e che a sua volta io avessi la sua. Grazie a tutta la squadra, e soprattutto all’attore che recita nei panni del padre, siamo riusciti a conoscerci molto bene.
Voglio però precisare che ci tengo a screditare un po’ quella che è un’immagine molto idealizzata del rapporto tra regista e attori. A mio avviso, infatti, deve sempre esserci una gerarchia profonda. Il lavoro deve essere professionale, concreto e anche molto fisico.
Il film lavora molto con i corpi: oggetti, o meglio, circuiti di piacere, disagio, violenza, scoperta, vicinanza. Sono tutte vibrazioni che arrivano distintamente allo spettatore. C’è stato un “lavoro nel lavoro” sui corpi in queste attività preliminari di costruzione della fiducia?
Assolutamente. Abbiamo fatto degli esercizi fisici per uscire dalla necessità di lavorare sulla memoria emotiva, perché è la memoria emotiva che gli attori usano a volte a renderci così vulnerabili. Daniela (l’attrice che interpreta Eva, n.d.R.) suona la batteria, quindi ha lavorato molto con questo strumento insieme a Reinaldo (l’attore che interpreta il padre, n.d.R.) come per trovare una sorta di ritmo congiunto. Avvicinando i corpi, a poco a poco ci siamo avvicinati anche ai temi del film. Trascorrere del tempo insieme è stato quindi decisivo.
Durante le riprese ci sentivamo come una piccola squadra. A me piace dirigere molto anche attraversando il dubbio, passando per il dialogo, spiegando ciò che sto cercando di fare. Credo che tutto questo abbia trasmesso al cast molta fiducia, tanto più che abbiamo scelto di filmare in ordine cronologico, come se fosse un modo di guardare alla storia e al suo svolgimento in tempo reale. Abbiamo condiviso una sorta di vertigine.
IL MIO CORPO CHE CAMBIA
Quando in un film la protagonista è adolescente, è troppo facile parlare di coming of age. Anche in qualche catalogo di festival e piattaforma professionale si usa questa espressione tra i generi a cui possa correlarsi il tuo film. So, però, che non ami questa espressione: perché Tengo sueños eléctricos non è un coming of age?
Perché è un’etichetta che spesso si affibbia ad alcune opere come per dire che sono film con poche ambizioni, piccoli film che parlano di adolescenza. Peggio ancora, sento che questa etichetta la si attacca soprattutto ai film girati da donne. Io, invece, ho realizzato il film in modo ambizioso, nel senso che volevo parlare di questioni serie, importanti e profonde. L’argomento non è di poco conto, perché crescere può essere molto straziante.
Non credo che nessuno, oggi, oserebbe dire che l’Amleto è un coming of age, né oserebbe sminuire l’importanza che è stata data a Huckleberry Finn, se non a Star Wars. Insomma, ogni storia sull’adolescenza non è semplicemente un coming of age. Questo film mi sembra uno spaccato di vita, e se per coming of age s’intende la storia di un adolescente che si muove da un punto A a un punto B, cioè che cresce in modo lineare, allora credo che questo film non parli di questo. Tengo sueños eléctricos parla della circolarità della vita, di come le cose si ripetano, di come in realtà non si cresca, o comunque di come l’età adulta sia un concetto molto astratto che non ha davvero senso.
Penso, dunque, sia una storia che parla di rapporti intergenerazionali. Coming of age è un’espressione condiscendente, un termine di mercato che ingabbia in una definizione opere complesse. Almeno io, mi rifiuto di usarlo.
TI AMO, POI TI ODIO
Due termini che invece non esiti ad impiegare quando parli di Tengo sueños eléctricos sono complicità e violenza. Mi chiedevo se in fase di scrittura già sapevi di ogni scena, sin dall’inizio, se dovesse contenere un po’ più di complicità o un po’ più di violenza, o se, invece ti piaceva che lo spettatore avvertisse ogni volta una specie di transizione fluida tra amore e odio, un’instabilità permanente.
Sì, penso che siano cose che coesistono costantemente, in ogni momento. È questo che rende difficile separare l’amore dalla violenza. Penso che in ogni scena il padre abbia qualche gesto di tenerezza o di complicità con la figlia, e allo stesso tempo c’è qualche gesto di grande violenza che non corrisponde necessariamente a ciò che si pensa.
Proviamo a fare un esempio.
C’è una scena in cui padre e figlia stanno guardando delle diapositive sul muro e all’improvviso una ragazza viene a lasciare un materasso e c’è un momento di complicità tra loro. Poi, però, all’improvviso lui arriva e butta via il materasso, dicendo davanti alla figlia: “ah, se questo materasso potesse parlare!”. Sembra un dettaglio, ma è molto violento quello che sta dicendo: sta parlando della sua vita sessuale, del fatto che vorrebbe andare a letto con una donna. Ma allo stesso tempo c’è complicità, perché si permette di raccontare a sua figlia un po’ della sua vita amorosa. La complicità è anche violenza, così come la libertà che il padre concede alla figlia è anche negligenza.
Insomma, ti piace giocare con i dualismi.
Sì. Nello stesso luogo in cui passa l’amore, transita anche l’odio. Sono due facce della stessa medaglia. Non l’ho pensato in fase di scrittura, ma certo che mi piace pensare che ogni scena contenga tutto e che le scene non siano divise per temi.
Parlavi di sessualità. Nella scoperta del suo corpo, ci sembra davvero di percepire l’elettricità sulla pelle di Eva. È però curioso che nella scena in cui dà il primo bacio, trovandolo forse un po’ bizzarro, le viene da ridere, così come le accade durante i primi abbordaggi più fisici. Più tardi, però, dopo il sesso piangerà. È una sessualità che inizia col riso e finisce col pianto. Come lo spiegheresti?
Non l’ho concepita esattamente in questo modo, ma effettivamente ciò che volevo raccontare era anche un po’ come la scoperta della sessualità e del desiderio possa essere brutale. Penso che sia il modo in cui, da giovane ragazza, da giovane donna, ci si mette un po’ contro il mondo. Ma lo si fa anche volontariamente. C’è una sorta di desiderio di scoprire il mondo. Non voglio avere una visione fatalista della sessualità, ma sento che c’è una grande solitudine nel processo di crescita e quindi inevitabilmente una quota di delusione.
Se Eva all’inizio ride, è perché è un modo per affrontare la paura ma anche per divertirsi. Credo, insomma, che stia vivendo il momento presente. La scena in cui perde la verginità è molte cose allo stesso tempo, non si può ridurre a un unico sentimento. Al cinema, purtroppo, questo è quello che accade con le scene di sesso: sono buone solo per qualcosa di specifico, come romanticismo, violenza o erotismo. In una scena di sesso, invece, possono accadere più cose, esserci più fasi. C’è la paura, l’attesa, il disagio, l’imbarazzo e a volte anche il divertimento. E a volte c’è anche il momento in cui si discute soltanto. Penso che una scena di sesso potrebbe occupare un intero film. Forse un giorno farò un film che sia solo questo: sarebbe ricco di suspense.
Perché, dunque, il passaggio dal riso al pianto?
Perché forse nel rapporto con Palomo (amico del padre, ovviamente molto più grande di lei, n.d.R.) è si rende conto un po’ del problema, dello squilibrio nel rapporto di potere col maschio. Lei non lo sa, scambia il bacio per amore, ma è come in svantaggio. Forse è questo che mi sembra molto crudele. Da questa situazione e dalla scoperta del sesso in generale, lo svantaggio di una ragazza adolescente è che è la sua prima volta ma non lo sa: è sola.
EVA CERCA IL PARADISO (O ANCHE SOLO UNA CASA)
C’è anche, ne abbiamo parlato, la ricerca del desiderio, del suo significato attraverso il corpo. Ma un’altra ricerca contraddistingue più frangenti del film: quella dell’appartamento. È curioso come nella prima parte ci sia una scena in cui una compagna di Eva osserva le foto dei ragazzi su Instagram, mentre Eva guarda quelle degli annunci immobiliari. Perché è così cruciale la ricerca della casa in Tengo sueños eléctricos?
Per molte ragioni. Sento che la ricerca di un appartamento è una cosa molto concreta ed amo che in un film siano inseriti aspetti così pratici. Mi piace che i personaggi si perdano, non sappiano dove stare. Certo, però, che si tratta anche di una ricerca simbolica, nel senso che lei sta cercando uno spazio nel mondo di suo padre. L’appartamento è un luogo di complicità. L’attrazione per i ragazzi occupa uno spazio importante nella vita delle ragazze di quella età, ma Eva non sta cercando un ragazzo, bensì un posto dove vivere col padre, perché quello sarebbe il luogo in cui sentirsi legittimata, in cui sentirebbe di esistere.
Tengo sueños eléctricos, gli interessi di Eva (a destra): cercare appartamenti
Ovviamente c’è anche un riferimento femminista, che è quello di poter avere una stanza tutta per lei, ma questo resta un aspetto più generico. Tengo sueños eléctricos è soprattutto una storia di fascinazione per il padre.
E poi, cercare un appartamento in un film, significa portare a spasso lo spettatore per la città, in questo caso San José.
Senza dubbio. La ricerca dell’appartamento mi ha interessato perché è un modo di vagare a San José, che è una città in continuo cambiamento e anche molto concreta. Quello che mi interessava era mostrare una città orizzontale che sta crescendo verticalmente a causa dello sviluppo immobiliare e anche del riciclaggio di denaro. Vengono costruiti edifici del tutto inutili. Il paesaggio urbano di San José sta scomparendo. Mi interessava quindi parlare anche di questo e della fragilità della classe media di San José, in Costa Rica, del fatto che un divorzio fa crollare uno e salire l’altro. Il luogo in cui si vive dice molto della propria classe sociale. Anche questo è un tema che volevo affrontare con l’appartamento.
LA CITTÀ CHE SI AUTODISTRUGGE
Proprio su San José avrei riservato una domanda. Tante volte ne scopriamo angoli curiosi insieme a padre e figlia, anche dall’abitacolo dell’auto. Uno dei partecipanti al laboratorio di poesia legge un poema che è dedicato proprio alla città. Lo spettatore ha la sensazione che San José sia una città ricca di storie, di potenziali racconti. Come hai inteso profilarla?
Della città di San José ho avuto molta paura. Quando sei una ragazza giovane, è una città pericolosa. Non puoi esplorarla a piedi, per esempio. Per questo l’ho rappresentata così spesso nel film in automobile, perché non è una città molto pedonale. Per me quel pericolo era lo stesso pericolo del mondo degli adulti, della sessualità. Mi piaceva l’idea di un personaggio adolescente che scopre il sesso, mentre scopre la città di San José.
Allo stesso, San José è una città che ha molte storie: non è un luogo del mondo, è il mondo. E come il mondo, come il sesso, come un padre, può essere deludente. Amo la città, ma devo riconoscere che è brutta. È una città in cui non c’è memoria, non c’è architettura urbana, tutto è buttato via; è una città che cancella il suo passato. Per questo ho voluto filmarla un po’, perché volevo filmare un momento di quella città prima che scompaia: prima che tutto venga buttato via, cancellato dalla memoria. La amo perché è il mondo, ma è una città che si autodistrugge, e ho trovato importante filmarla per questo motivo: per lasciare che il cinema ne fosse la memoria.
PADRI E FIGLI (O VICEVERSA)
Un’altra forma di esplorazione della città, ma anche dell’emotività dei personaggi, più che spaziale è temporale: a San José vediamo le notti, poi le mattine. C’è una scena in questo senso che trovo interessante: quella in cui Eva torna a casa dopo aver passato la notte dal padre, cercando di non farsi scoprire dalla madre, ma in realtà si accorge che quest’ultima a sua volta, sta rincasando solo al mattino. E la rimprovera perché è troppo truccata. Qui si ha davvero la sensazione dell’inversione del rapporto genitori-figli, come d’altro canto in tutto il film: anche il padre va accudito, più che essere colui che accudisce.
Sì, certo. Nel luogo in cui sono cresciuta, mi colpisce la curiosità che c’è tra una generazione e l’altra. Anche se il film non è strettamente autobiografico, è molto basato su persone che conosco. Si trattava di una classe media intellettuale, molto artistica, che voleva staccarsi dalla figura autoritaria delle generazioni precedenti. Quindi c’era una specie di zona grigia in cui adolescenti e adulti potevano scambiarsi un po’ i ruoli. Questo dà un senso di progresso, di libertà, ma allo stesso tempo è un po’ vertiginoso, un po’ malato. Tende a generare una tensione costante.
Nell’episodio a cui fai riferimento, volevo raccontare anche come prendersi il ruolo adulto con la madre fosse per Eva anche un modo per vendicarsi. Anche perché, non so come dirlo, ma le dà fastidio che anche sua madre stia cercando di trovare la propria sessualità, la propria libertà.
Ecco, il film non è indulgente con Eva. Sarebbe facile generare condiscendenza verso una ragazza che cresce con genitori divorziati, ma non hai esitato a mostrarne anche i lati spigolosi del carattere.
Eva non è un personaggio da confraternita, ma un personaggio maschile, molto crudele e ingiusto. È quello che siamo da adolescenti, secondo me. Ed Eva, sì, ha i suoi difetti.
Qualcuno ha azzardato un paragone tra il tuo film e uno dei film di punta del 2022-23 – a seconda dell’uscita differenziata nei vari Paesi – vale a dire Aftersun. Non sono completamente d’accordo rispetto al rapporto figlia-padre, ma c’è almeno un aspetto in comune tra i due film, forse più insospettabile: il senso di autodistruzione del padre. In Aftersun, il giovane padre si dice sorpreso di essere arrivato alla sua età e quasi scherza con la morte in equilibrio sul balcone o rischiando di farsi investire per strada. In Tengo sueños eléctricos, il padre s’infligge il dolore sin dalle prime scene. Persino il suo amico, Palomo, confessa un passato da autolesionista. È quasi un ossimoro filmico: da un lato il corpo vivo di Eva che fiorisce, dall’altro la spinta all’autodistruzione. Eros e thanatos, insomma.
So che ci sono persone che parlano di Aftersun quando vedono il mio film. Ho visto Aftersun e mi è piaciuto molto, ma sento che i miei personaggi sono diversi. C’è più brutalità nel mio film. Mi piace che i personaggi abbiano una violenza pronta a esplodere contro il mondo e contro sé stessi, perché gli strumenti che conosco per affrontare le avversità della vita sono quelli di una rabbia sorda, che viene dalle viscere e si prende la sua voce. Il momento in cui i personaggi esprimono il bisogno di autodistruzione si scatena perché sono la spugna di tutta la violenza del mondo in cui vivono.
Tengo sueños eléctricos, padre e figlia a San José tra violenza e tenerezza
La violenza è qualcosa che si può confondere con la vitalità, e credo mi piacciano i personaggi che si sentono vivi. Anche quando si mordono, anche quando sbattono la testa contro il muro (gesto ripetuto da Martín, n.d.R.), perché a volte le idee non vanno bene, le parole non bastano per capire cosa si sta vivendo. È qualcosa come un ribollire, ma è anche vero che esprime una tenerezza di fondo, perché è così che questi personaggi resistono alla violenza del mondo.
PERSONAGGI DISFUNZIONALI
Ti sentiresti di definirli personaggi disfunzionali? Te lo chiedo perché FestivalScope riporta una tua dichiarazione sui personaggi in cui li definisci “disfunzionali, in conflitto col loro corpo e coi loro desideri, persi in un mondo dove l’amore filiale e la violenza sono intrecciati”.
Non saprei, ma credo che la rabbia e l’ira abbiano una loro funzionalità, anche se antisociale. Provo tenerezza per questi personaggi, perché non alimentano l’ego dello spettatore. Non ci si può identificare con loro per i valori umani o positivi, ma credo che faranno appello al lato più animalesco dello spettatore.
Un altro tuo cavallo di battaglia è quello per cui il cinema è un modo per sentirsi meno soli nell’universo.
Sì, beh, credo che sia anche così. Voglio dire, ho scoperto il cinema quando avevo 16 anni e ho visto un film in cui c’era una ragazza adolescente che era un personaggio molto oscuro, molto ambivalente e molto reale. Mi sono fortemente identificata con quel personaggio, ma in un certo senso con del disagio. Non capivo perché mi sentissi identificata con un personaggio adolescente che in realtà era un po’ diabolico, ma percepivo come quel film mi avesse messo a nudo. Era come se la regista sapesse qualcosa di me che io stesso ignoravo e come se quel film fosse stato girato solo per me. Questo è quello che mi aspetto dal cinema: che ti senta meno solo. Con Tengo sueños eléctricos chissà che la mia speranza non sia quella di far sentire meno solo un adolescente quando vede il film.
GATTI E MASCHERE
Nel mondo di Eva, se così posso chiamarlo, hai prestato attenzione a due particolari che mi hanno colpito: il gatto, presenza costante e guardinga; l’attrazione per le maschere, vecchio materiale di scena della madre, con cui la ragazza giochicchia più volte. Che valore hanno per te?
Mi piacciono i personaggi animali nelle sceneggiature, perché un animale in una casa è un testimone. L’animale che sa qualcosa di te, ma tu non sai cosa. Ha una presenza un po’ inquietante, ma anche un po’ saggia. Il gatto, nel film, è come una spugna e un riflesso di tutte le pressioni che avvengono in questa casa. può sembrare strano, ma c’è qualcosa che si sposta nella compassione dello spettatore quando c’è un animale nel film. Lo spettatore sente più empatia verso l’animale che verso i personaggi umani. Mi è sempre sembrato paradossale, ma è per questo che il gatto è lì. E c’è anche perché Eva lo ama, e questo è un amore che la gente capisce a volte più di tutti gli altri amori che ci sono nel film.
E poi le maschere.
Questo elemento era più presente in un’altra versione lunga del film. È il padre che fa le maschere. Insieme all’illustrazione artistica, è significativo del fatto che non sia riuscito a sviluppare la sua arte.
Allora perché hai tolto le altre citazioni delle maschere nella versione finale del film?
Perché mi sembrava che stessi cercando di spiegare troppo le cose, ed è una cosa inutile nei film. Ma ora tu me ne stai chiedendo, quindi vuol dire che il riferimento alla maschera non è scomparso, c’è ancora. Naturalmente, poi, la maschera rimanda sempre alla dimensione del doppio. Non ho esplorato questo simbolo, è vero, ma grazie per averlo notato.
Non per niente, mi capita spesso che i registi, durante le interviste, mi ringrazino per averli portati a riflettere su qualche dettaglio del loro film. Per chi ama il cinema, è bello parlare di dettagli.
Il diavolo è nei dettagli (ride, n.d.R.).
LA FORZA DELLA MALINCONIA (E DELLA POESIA)
Veniamo alle battute finali. Voglio ancora sforzarmi di far intendere allo spettatore l’umore del film. Prendo spunto da un’espressione che compare in una scena ben precisa, allorché Martin, che partecipa a un laboratorio di poesia, dice a sua figlia che le sue poesie sono state descritte come contraddistinte da una “forza malinconica”. Questa parola – melancolica, nella versione originale – sembra suggestionare Eva, che la ripete a sé stessa a bassa voce. Si può dire che la stessa definizione di forza melancolica sia applicabile al tuo film?
Ti ringrazio. Pensavo di essere incapace di malinconia quando ho scritto Tengo sueños eléctricos, pensavo che il motore principale del film sarebbe stato quella della collera, della rabbia, e nient’altro; e che sarebbe stato un buon motore, in quanto capace di darmi la sensazione di sentirmi dentro la vita. Effettivamente, però, nell’ultima parte una certa malinconia pervade il film. Malinconia è ciò che sorge quando si diventa capaci di digerire in maniera più trattenuta tutta l’intensità di ciò che succede nel film. Questo succede quando nella parte finale compare la poesia che dà il titolo al film. Ho esitato molto circa la possibilità di usarla o meno. A proposito del fatto che il cinema non debba contenere troppe spiegazioni, temevo che quella poesia desse al padre la possibilità di spiegarsi. Ma credo che sia comprensibile che lo faccia.
Inoltre, una caratteristica del personaggio del padre è quella di essere così confuso, ma allo stesso tempo in grado, in una poesia, di capire qualcosa della vita. Questo è malinconia per me: comprendere la vita in una poesia e non essere in grado di farci molto. È una malinconia misteriosa che non riesco a spiegare, un po’ come avere accesso a qualcosa di reale che però non ti serve a nulla.
È nella poesia finale che compare l’espressione di sogni elettrici. Eppure, di sogni il tuo film parla più volte, anche prima dell’epilogo. Lo fa Eva, raccontandone sia alla madre che al padre. Che relazione c’è tra la storia del tuo film e i sogni?
Il punto principale è questo: mi piace il fatto che i personaggi non parlino mai direttamente delle cose. Devono sempre passare attraverso un sogno, una poesia; credo che le persone siano spesso così. Devono fare deviazioni. Mi piacciono i sogni, li uso così come sono. Quelli che sono presenti nel film sono sogni che qualcuno ha sognato, io o altre persone. Mi piacciono perché mi costringono a perdere una certa quantità di controllonella scrittura. Vale lo stesso con la poesia. Voglio dire, la poesia esisteva già, o almeno alcuni versi della poesia esistevano già. E ho dovuto usarla così. Non l’ho adattata alla storia. Questa piccola perdita di controllo, adattandosi al reale, mi sembra una buona guida per la scrittura.
DUE ORFANI NEL CEMENTO
A proposito di realtà: il processo creativo che mi hai descritto, specie quello con gli attori, mi sembra affine a come me l’hanno descritto molti documentaristi in varie interviste. Mi sembra che anche l’effetto complessivo dei movimenti della macchina da presa, quando aderisce a corpi o quando mostra il reale brulichio della città, sia fortemente realistico.
Anche con la macchina da presa si tratta di una voluta perdita di controllo. Per accordi con la coproduzione, all’inizio avrei dovuto lavorare con un direttore della fotografia europeo, ma alla fine ho scelto Nicolas Wong. Lo ammiro molto perché è costaricano e sentivo il bisogno di uno sguardo specificamente costaraicano su San José, perciò abbiamo dovuto lavorare poco prima delle riprese e adattarci insieme. Con Nico abbiamo dovuto abbandonare un po’ l’idea di studiare ogni singolo movimento. Abbiamo pensato di girare il film con telecamera a spalla.
Allo stesso tempo, non volevo che il film sembrasse realistico solo per la camera a spalla. Abbiamo allora cercato di riprendere i corpi, adattando il nostro modo di filmare ai loro movimenti. La città, invece, doveva essere filmata con inquadrature fisse e zoom, in modo più esterno e distante. L’effetto complessivo nel vedere padre e figlia muoversi in questi spazi è quello di due orfani bloccati nel cemento. È il risultato finale di questa dialettica tra me e il direttore della fotografia: io volevo essere più vicino, lui più lontano; io ero l’impudicizia, lui il pudore. Insieme, abbiamo trovato un equilibrio intermedio.
Ma gli equilibri sono fatti, a volte, per essere infranti. Quello che mi descrivi è un classico gioco delle distanze filmico, se non documentaristico, ma non è detto che i parametri siano sempre gli stessi in ogni opera.
Infatti, nei miei prossimi film voglio andare oltre, e provare realmente a capire come si possa filmare il corpo. A volte il corpo è più presente se lo tieni al margine del campo, altre se ti tieni a distanza, altre ancora se lo frammenti. A volte esiste se si muove, altre se non si muove. Sono percezioni che influenzano la scelta dei movimenti della macchina da presa. È un bel tema, appassionante. Ma non mi piace parlarne in teoria. Sono molto pragmatica e devo capirlo sul campo di volta in volta.
ALLA PROSSIMA
E allora veniamo al tuo prossimo progetto, in cui potrai trovare applicazione concreta di questi pensieri.
Sto scrivendo un film che voglio girare ancora a San José, a Zapote, che è il quartiere dove sono cresciuta. Questa volta non si tratta di personaggi che cercano un appartamento, bensì di personaggi che vogliono liberarsi di una casa e di venderla. Non ci riescono perché l’ultima delle sorelle non vuole andarsene. È una storia molto semplice, con personaggi ambivalenti e, perché no, disfunzionali. Quindi è una storia molto semplice, ma naturalmente si tratta anche di personaggi molto ambivalenti, in un certo senso disfunzionali.
Vorrei anche raccontare un po’ cosa significhi l’amore di una donna, che è insieme padre e madre in questo film, che viveva in questa casa, e di come per la famiglia sia difficile liberarsi di quel ricordo. Il film si basa anche su di una poesia, dal verso della quale prende il suo titolo attuale. Ma è ancora tutto piuttosto teorico.
Ne riparleremo quando sarà finito e sarà stato presentato in qualche festival. Grazie per questa bella chiacchierata. Per me è prezioso che un regista possa parlare del suo film. per me, i critici sono spesso inutili.
Io invece penso che quando un cineasta parla dei suoi film, non lo fa tanto bene. Anche se riconosco che nella tensione del dialogo col critico, sì, resti davvero qualcosa del film. Ma di questo parleremo un’altra volta.