Live till I die: un corto ambientato in una casa di riposo a Kyrkbyn, alla periferia di Stoccolma. Ventitre minuti per riscoprire la dignità e la pienezza degli ultimi scampoli di vita, proprio gli ultimi, essendo i suoi residenti quasi tutti centenari.
Regia di Asa Ekman, Oscar Hedin e Anders Teigen.
Live till I die Trama del cortometraggio
Nella casa di riposo, si sviluppa una stretta relazione tra Monica (Monica Lyander) assistente agli anziani, ed Ella (Eleonora Nordqvist), novantanovenne senza parenti stretti. Una storia su come cercare di riconciliarci con la vita che finisce, facendolo con humour e calore e rompendo gli stereotipi delle case di riposo.
‘Live till I live’, un’immagine gioiosa del film
Live till I die Un problema attualissimo
Il festival Mente Locale – Visioni sul territorio, al suo decimo compleanno, è diventato ancora più internazionale, ampliando anche la tipologia dei temi e dei problemi sociali contemporanei. Il documentario Live till I die è inserito a piena ragione nel suo programma, perché affronta con estrema delicatezza, in maniera quasi struggente, una realtà oggi molto spinosa. Una realtà che riguarda tutti e in tutti i luoghi: quella dell’età avanzata nella nostra vita, che dura di più solo perché la vecchiaia è diventata più lunga.
Sembra una casa di riposo ideale quella di Kyrkbyn, come altri aspetti sociali del Nord, che i nostri occhi di meridionali (ogni luogo ha il proprio meridione!) sono portati a vagheggiare. La ripresa iniziale sull’esterno dell’edificio fa davvero pensare a un posto di vacanza. Gli interni, no, sono asettici come gli ospedali, uguali dappertutto.
Parlare della morte non è un tabù
Il calore è piuttosto nella relazione, nella leggerezza con cui si parla della vita. E non importa se la prospettiva ne prevede ben poca. Vivrai fino a centodieci anni, dice Monica ad Ella. Dieci anni ancora, no! Risponde Ella mentre si lamenta di non poter più camminare. Un po’ si scherza sull’età, un po’ si ascolta il dolore dell’altro, lo si accoglie, stando davvero insieme, accompagnando verso la sofferenza del passaggio dalla vita alla morte con una presenza autentica.
In questo breve film, necessario, è l’intimità dei gesti che emoziona e fa pensare all’unica possibilità sensata per vivere l’ultimissima stagione della vita. Attraverso la vita, fino a quando è possibile, come dice il titolo, Live till I die. Un’infinita tenerezza sostituisce alla fine le battute di spirito, il gioco. E il dolore, che non è mai stato rimosso, viene accettato in tutto il suo valore.
La vecchiaia al cinema
Se parlare della morte e della vecchiaia in questo breve documentario così pregnante di significato non è più un divieto, anche il Cinema, almeno negli ultimi due decenni, ha rappresentato i tradimenti del corpo nell’età che avanza, spesso anche della mente. Dal nostro leggerissimo Pranzo di ferragosto, con uno stralunato Gianni di Gregorio, o Youth-La giovinezza di Paolo Sorrentino (girato in lingua inglese), allo struggente The father con l’intensità di Anthony Hopkins.
Il film di Sorrentino, attraverso l’interpretazione di Harvey Keitel e Michael Caine rendeva due diversi modi per vivere la quarta età: uno frenetico quasi volendola esorcizzare, l’altro ripiegato su di sé, cercando di trattenere i ricordi, ormai unico ancoraggio dell’esistenza.
Avevamo già parlato sulle pagine di Taxidrivers del tabù della vecchiaia infranto al Cinema, almeno nell’ultimo paio di decenni. Molti altri film hanno trattato lo stesso tema da allora (era il 2015), con toni diversi, ma con uguale partecipazione.
Youth: la vecchiaia al cinema. Il divieto infranto di raccontarla (taxidrivers.it)
Live till I die, che non è un film di finzione, più di tutti i film di finzione rifugge dagli inutili pudori nel ritrarre l’aspetto più delicato della vita, protratto fino al confine con la morte, proprio vicino o addirittura sulla soglia.
Il rispetto per l’altro
Vivo fino a quando morirò, Non romperò la mia vela, dice Eleonora. Eppure non dorme la notte (e Monica le fa compagnia), fa fatica a muoversi, è tutta un dolore. Nella casa di riposo svedese, le donne mettono lo smalto e si compiacciono delle loro mani con la pelle quasi trasparente, ma le unghie laccate. Si gioca tutti insieme, e insieme si fa fisioterapia, persino qualche gita. Ella viene anche accompagnata nei suoi luoghi d’origine. Grande festa poi per i suoi cento anni.
La giornata è scandita dai piccoli riti e dall’amore, dall’accudimento. Dal rispetto, anche e soprattutto quando Ella comincia a lasciare la vita, vissuta fino ad ora. Quando dice Penso che il mio tempo sia finito, le si risponde Lo penso anch’io. Tengo molto a te! Le mani si stringono, e anche il cuore dello spettatore, in una tenera commozione.
Un’immagine del film
Il distacco da una persona di cento anni, ovviamente, non è disperato. Monica piange, da sola e insieme agli altri ospiti. Ma è un dolore pacato, senza rimpianti per la consapevolezza di aver dato tutto ciò che poteva.
Davvero una grande lezione questo breve documentario. Da custodire come qualcosa di prezioso.
Festival Mente Locale – Visioni sul territorio