'Pantafa' di Emanuele Scaringi si sottrae alla sudditanza nei confronti dei modelli americani raccontando la fuga dal mondo di una madre e della propria figlia. Ora disponibile su RaiPlay
Il passato come colpa, ma soprattutto l’impossibilità di conciliarsi con ciò che è stato e ora non è più. Pantafa di EmanueleScaringi ragiona sul nostro tempo procedendo con coerenza sul percorso della propria filmografia delegando ancora una volta al genere – questa volta tocca all’horror -, il compito di tradurre il paesaggio interiore dei personaggi.
Se la trama è presto detta, ruotando attorno alla fuga dal mondo di una madre e della sua bambina, destinate a fronteggiare gli inquietanti sviluppi derivati dalla decisione di soggiornare in un paesino di montagna, quello che più interessa in questo caso è il modo in cui Scaringi riesce a conciliare la componente più personale del suo discorso con la necessità di non venire meno al presupposto principe del genere in questione, ovvero quello di mettere paura allo spettatore.
Un confronto
Così facendo Pantafa si confronta con luoghi e personaggi tra i più classici del cinema horror, a cominciare da una versione femminile del Bogeyman americano, retaggio della tradizione popolare, alla casa infestata da demoniache presenze e per finire con una concezione del male radicata nella storia degli uomini e dunque destinato a reiterarsi nel tempo e nello spazio (quest’ultimo, come insegna la Blumhouse, circoscritto per lo più all’interno di un unico ambiente). Questo per dire come ogni elemento nel film di Scaringi suggerisce (fuoricampo) una serie di titoli putativi al suo.
In questa ottica Scaringi è bravo a sottrarsi dalla sudditanza verso i prodotti americani. Così è, per esempio, la scelta del linguaggio dialettale, peraltro, nella sua asprezza vocale, adatto a rendere il senso di una realtà minacciosa e respingente. Altrettanto lo è il rigore di un’essenzialità che non riguarda solo la messinscena, priva o quasi di CG, ma anche la recitazione, con KasiaSmutniak e la piccola GretaSanti, brave a far trasparire il disagio dei personaggi da interpretazioni scarnificate e prive dei consueti birignao.
Emanuele Scaringi prima di Pantafa
Come successo ne La profezia dell’Armadillo ma anche ne L’alligatore anche in PantafaEmanuele Scaringi mostra di prediligere il racconto intimo di esistenze ribelli e per questo costrette ai margini. Ma non solo, perché come nel film d’esordio, anche in quest’ultimo la crisi di identità dei personaggi si trasforma in un conflitto, tra realtà e immaginazione, tra carne e spirito, capace di raccontare i fantasmi delle nostre paure.
Nel farlo Pantafa non si volge mai indietro, immerso com è in un senso di colpa che impedisce al film di trovare ragione dei propri patimenti. A confermarlo la scelta di collocare le foto d’epoca, quelle con gli antenati dei protagonisti, oltre il termine della storia. Una sorta di commento fuori campo utile a ribadire – come si diceva all’inizio – l’ impossibilità di fare pace con il passato. Ultimo atto di una coerenza che in Pantafa non viene mai meno.
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