
Giappone Underground.
Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ’70
di Beniamino Biondi
Edizioni Il Foglio
Piombino (LI)
135 pp., brossura, ill. b/n
2011
Dopo l’interesse suscitato dal testo Nihon Eiga – Storia del Cinema Giapponese dal 1970 al 2010 (csf edizioni, Roma, 2010) a cura di Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati e la relativa rassegna, tenutasi dal 14 ottobre 2010 al 23 giugno 2011 presso il cineclub Detour di Roma, ecco un altro libro che mira a indagare un cinema giapponese “sommerso”, poco conosciuto in Italia.
Sebbene nel Sol Levante la nascita del cinema sperimentale sia sorprendentemente remota, solamente con i primi anni ’60 si svolgono gli esordi di una tendenza all’underground sovversiva e soprattutto consapevole del senso dei propri mezzi formali e del significato delle sue ipotesi ideologiche. Tralasciando per una volta i celeberrimi autori della cosiddetta Nouvelle Vague giapponese, Imamura e Ōshima tra tutti, Beniamino Biondi ripercorre le carriere di cineasti eccessivi quanto poco noti, che operarono al di fuori del sistema dei grandi studi di produzione. Figure spesso solitarie, quasi possedute dal desiderio di sperimentare linguaggi estremi, riflettendo così il tentativo di una radicale riorganizzazione delle funzioni del mezzo cinematografico. Il loro cinema è un raffinato esperimento di astrazione dei materiali in favore della rarefazione della forma, incline a un compiacimento narcisistico di un soggettivismo esasperato.
Tra questi, segnaliamo la follia dadaista di Takahiko Iimura. Yoji Kuri con la sua opera sovversiva e minimalista, frutto di una concezione artigianale del cinema di animazione. Nella interessante carrellata di personaggi davvero poco noti al pubblico dei non addetti ai lavori fatta da Biondi, a inizio testo, spicca un’analisi sorprendentemente inedita di Donald Richie, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sulla cultura giapponese. Scopriamo dunque come il critico statunitense abbia un passato da regista estremo, ma ancor più curioso è il fatto che egli è da considerarsi quasi come un cineasta nipponico, avendo girato e pensato le sue pellicole proprio in Giappone.
Il testo prosegue con una serie di corte biografie critiche, tra le quali spiccano quelle dedicate a due figure assolutamente agli antipodi: da una parte Kōji Wakamatsu, definito in patria una autentica “vergogna nazionale”; dall’altra Yukio Mishima, decadente esteta alla ricerca di un rinvigorimento nazionale, attraverso la riscoperta della tradizione samuraica. Il primo dichiaratamente di sinistra, con simpatie ben poco celate per movimenti terroristici come l’Armata Rossa Giapponese (attiva tra gli anni ’70 e ’80). Il secondo, politicamente più difficile da classificare, un conservatore ribelle e in rotta con la traviata morale del Giappone post-bellico. Una ribellione che lo portò a un suicidio plateale, quanto inutile, nel novembre del 1970. Questo a dimostrare come nel libro in questione si ricerchi almeno in parte anche un equilibrio politico, non soffermandosi esclusivamente su degli artisti di sinistra.
Biondi manifesta uno stile autoriale, tipico della critica militante post-ghezziana, talvolta forse un po’ barocco, ma senz’altro suggestivo e coerente con un tipo di cinematografia di questo tipo. Tuttavia, trattasi di un testo che permette una lettura agile, con un apparato bibliografico e delle note ridotti all’essenziale, come a voler far intendere che più che un “freddo” saggio cinematografico, ci troviamo di fronte a una specie di romanzo, dal taglio a tratti bukowskiano, su di un cinema giapponese decisamente alternativo.
Concludendo, Giappone Underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ’70 rappresenta un’interessante occasione per ampliare lo spettro culturale sulla cinematografia, non solo giapponese, tra gli anni ’60 e ’70. Un libro che rivela a tratti un Giappone inconsueto e lontano da quella immagine di perfezione e armonia che molti in Occidente hanno di questo complesso paese. Un popolo, quello dell’Arcipelago, intrigante e, nel contempo, ieratico; un paese dove il silenzio è intriso di suoni difficili da percepire per una mente poco allenata a leggere, come spiegava Roland Barthes, negli interstizi più nascosti di una cultura che è tutto fuorché banale e prevedibile.
Riccardo Rosati