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‘Mayor of Kingstown 4’: la città dove il potere logora chi lo detiene

Taylor Sheridan torna con la quarta stagione del crime-drama su Paramount+, esplorando le tensioni morali di Mike McLusky e di una città corrotta che non concede redenzione.

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Cupa, implacabile, disillusa, la città di Kingstown torna a farsi teatro di tensioni e compromessi nella quarta stagione di Mayor of Kingstown, disponibile su Paramount+ ,  confermando il crime-drama come uno dei più duri e stratificati della serialità contemporanea. Creata da Taylor Sheridan insieme a Hugh Dillon e altri autori, la serie esplora i meccanismi del potere in una città che sembra divorare chi la governa, con Jeremy Renner che riprende il ruolo di Mike McLusky tra negoziazioni moralmente ambigue e tensioni costanti. Con la distribuzione di Paramount Skydance Corporation, questa stagione rilancia una domanda che attraversa l’intera narrazione: è possibile esercitare autorità in un sistema marcio senza esserne contaminati? Sheridan affronta la questione con un realismo spietato, dove le risposte sono rare e mai consolatorie.

Mayor of Kingstown – Guarda su Paramount+ Italia

Un racconto duro, privo di illusioni

Nel mondo costruito da Sheridan (Soldado, I segreti di Wind River) non c’è spazio per imposizioni morali o per redenzioni spettacolari. Kingstown — la città immaginaria che ospita traffici, prigioni, corruzione e violenza — non è un set: è un organismo sociale in crisi, dove ogni tentativo di ordine si scontra con la logica criminale di chi considera la legge un dettaglio secondario.

La stagione quattro cerca soprattutto di restituire densità: densità di carattere, di ambientazione, di conflitto. Non si tratta di intensificare la violenza per il gusto dell’effetto: la brutalità è già presente nella vita quotidiana dei personaggi, nei compromessi, nelle paure. La scrittura sembra consapevole di questo: non mostra grandi drammi, ma lascia che la tensione si sedimenti e che i silenzi pesino più delle esplosioni.

Mike McLusky: tra potere e abisso morale

Al centro di tutto c’è Mike McLusky, interpretato da Jeremy Renner (The Bourne Legacy, The Avengers), figura fragile e disperata, al tempo stesso capace di assumersi la responsabilità di essere «colui che media». Mike non è un eroe: non veste il mantello delle virtù civiche né pretende di cambiare il mondo. È un sopravvissuto che tenta di mitigare i danni, di negoziare una sorta di ordine dentro il caos.

La stagione lo mostra consunto, in bilico, con la consapevolezza che ogni decisione — anche la meno ambigua — comporta un prezzo morale. Renner non urla, non predica, ma trasmette un dolore che si fa corpo: stanchezza, cinismo, un’attitudine disillusa che tuttavia non si lascia annientare. In un panorama seriale dove troppo spesso prevale il gesto eroico, qui appare la miseria umana di chi governa al limite dell’illegalità, con la testa che sa cosa è giusto, ma le mani sporche di compromessi.

Il carcere come specchio di un collasso politico

Con la quarta stagione irrompe nel cast Edie Falco (Law & Order True Crime, I Soprano), nei panni di Nina Hobbs, la nuova direttrice del carcere di Anchor Bay. La sua presenza segna un cambiamento netto nella dinamica narrativa: non arriva per dominare, ma per osservare. Non impone regole, ma tenta di ricostruire un senso di ordine, un’autorità silenziosa. Hobbs non è una figura antagonista nel senso tradizionale: è piuttosto un possibile polo di rigore — istituzionale, legale — che si contrappone al potere fluido e relazionale di McLusky.

Il carcere, in questa stagione, è molto più di una scenografia: è un microcosmo che riflette l’intera città. Le celle, i corridoi, i correnti sotterranei di violenza e corruzione sono l’amplificazione grafica di una comunità che respira in apnea. Qui la serie mostra la sua parte più efficace: niente estetismi, niente spettacolarizzazione del dolore. Solo il freddo rumore delle sbarre, la ruggine dei muri, la sufficienza degli sguardi. È un carcere che vive di routine e di paura, ma soprattutto di impotenza.

Ritmo, struttura, coerenza: la scrittura di un sistema narrativo

Se nelle prime stagioni la serie pativa qualche inciampo — una certa disomogeneità nel tono, svolte forse affrettate — in questo quarto capitolo si avverte una coerenza superiore. Ogni episodio sembra pensato come un tessuto organico, dove le tensioni si costruiscono per accumulo, le relazioni evolvono per sottrazione, le conseguenze emergono gradualmente.

Non si cerca il colpo di scena fine a sé stesso, bensì l’effetto accumulato: la sospensione, la frizione, il dolore latente. Come in una tragedia moderna, la drammaturgia di Mayor of Kingstown investe sul lento, sul sottile, sul silenzio che pesa — conscia che la verità non è in un singolo evento, ma nel lungo logorìo delle relazioni e delle situazioni.

L’estetica del degrado: regia e fotografia al servizio del discorso

Dal punto di vista formale, la regia — pur senza la pretesa di una sperimentazione visiva — conferma un’estetica coerente con il tono delle stagioni precedenti: luci fredde, paesaggi urbani desaturati, ambienti angusti. Ma questa volta l’estetica non è mai gratuita: ogni inquadratura, ogni campo e controcampo, ogni dettaglio funzionano come complemento narrativo.

Kingstown non è una scenografia malata costruita per impressionare, ma una metafora del collasso sociale: asfalto craquelé, muri consunti, cemento e ruggine. È la periferia non solo geografica, ma morale — un luogo in cui il disfacimento non è estetico, ma strutturale. In questo senso la serie evita il sensazionalismo e restituisce la drammaticità come condizione permanente.

La domanda centrale: il potere può salvare un mondo che rifiuta di essere salvato?

Tornando alla domanda iniziale — governare un sistema marcio significa diventare parte della sua corruzione? — la risposta che la stagione offre è ambivalente. Non c’è redenzione, non c’è rigenerazione. C’è piuttosto la consapevolezza del prezzo del potere e del limite della volontà individuale: solo chi ignora il dolore può pensare di cambiare davvero qualcosa.

Mike McLusky, con le sue crepe interiori, è la figura perfetta per incarnare questo paradosso. Non è cattivo, non è eroico: è necessario. E controverso. In un mondo dove la giustizia reale è un inganno, l’unico modo per sopravvivere è negoziare ogni giorno un compromesso — consapevole che prima o poi il sistema mostrerà il suo vero volto.

Conclusione: un crime-drama che somiglia a una lezione di realismo

La quarta stagione di Mayor of Kingstown non arriva come spettacolo di genere, ma come esercizio di realismo morale. Non interessa compiacere: interessa disturbare, mettere a nudo le contraddizioni, far vedere ciò che spesso viene nascosto dagli alibi narrativi.

È una serialità che rinuncia alla spettacolarità facile per puntare sul rigore, sull’analisi, sulla sottrazione. Una serialità che — nel silenzio delle celle, nelle ombre delle strade, nella fatica di chi sopravvive — chiede allo spettatore di guardare, pensare, stare in ascolto.

E in un panorama televisivo sempre più invaso da effetti, colpi di scena e drammi urlati, Mayor of Kingstown 4 ricorda che la durezza non ha bisogno di rumore: basta raccontare la verità.

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Mayor of Kingstown 4

  • Durata: 52 minuti
  • Distribuzione: Paramount
  • Genere: Crime drama
  • Nazionalita: Stati Uniti
  • Regia: Taylor Sheridan
  • Data di uscita: 26-October-2025