Anno: 2011
Durata: 72′
Nazionalità: Usa/Germania/Paesi Bassi/ Belgio/Francia
Regia: Marie Losier
“Io e Lady Jaye eravamo così innamorati da volerci ‘inglobare’ l’un l’altro in un unico grande blob d’amore. Aveva un senso, come la “terza mente” che scaturiva dal “cut up” nella letteratura di William Burroughs e Brian Gysin. Quello che stavamo facendo era un ulteriore passo avanti. Prendiamo due persone, le tagliamo a pezzi e le rimettiamo assieme facendole diventare una terza persona”.
Presentato in anteprima alla 61° edizione del Festival di Berlino, inserito nella sezione Festa Mobile del Torino Film Festival 2011, The Ballad of Genesis and Lady Jaye viene proiettato alla prima rassegna di Agender Cinema Queer – Arti Future, al Nuovo Cinema Aquila a Roma.
Diretto da Marie Losier, il documentario sin dalla prima immagine appare come il racconto ardito, pazzo, sconvolgente, pregno ed intensissimo della storia di due persone che per amarsi completamente si spingono oltre se stesse. È la ballata di un amore travolgente e inglobante, che, attraverso una quanto mai classica costruzione del racconto, ripercorre la vita di una delle figure chiave dell’underground britannica, Genesis P-Orridge, uno tra i precursori dell’industrial rock, lo stile sperimentale nato dalla combinazione tra elementi di musica colta e musica pop.
Performer per antonomasia, Genesis P-Orridge trova sulla propria strada la donna della quale si innamora tanto da volerla inglobare, tanto da volersi fondere con lei, dando origine ad un blob di identificazione.
Così l’amore travolgente porta Genesis e Jaye dapprima a truccarsi, a vestirsi e pettinarsi nello stesso modo, poi – complice la suggestione provocata dalla concezione letteraria di William Borroughs e Brion Gysin – ad avventurarsi nella decostruzione di se stessi.
Ogni elemento si mostra come del materiale grezzo: pezzi montati, nella musica, nel corpo, nel senso della vita, rimontata anch’essa e sperimentata, stravolta e riordinata.
Definito come il distruttore della civilizzazione, come perverso e scellerato, Genesis lascia che la regista entri nella sua vita, nella propria casa, mentre cucina, si trucca, lavora, spogliandosi completamente di qualunque falso pudore, rabbia e frustrazione per chi non riesca a comprenderlo, lui/lei (S/He) che semplicemente appare come un individuo innamorato pazzamente di una donna con la quale condivide la vita ed il lavoro, i pensieri e l’ideale, in un superamento che punta alla fusione dell’uno con l’altra.
Voce over che accompagna l’intero viaggio è la sua, tanto maschile ed irruente quanto femminile e persuasiva, sorprendentemente suadente, malinconica, pazza e commossa, che appare come tra le più classiche e stranianti melodie sulla quale sembrano schiantarsi le immagini scapestrate e irriverenti di una vita tanto urlata quanto dimessa, timida ed estremamente fragile.
Così in scena appare il performer, il video-artista, il creatore della pandroginia, un grido disperato per la sopravvivenza di due corpi angelici, con cui risponde con concretezza all’utopia di guardarsi e riconoscersi nella persona amata. È il dio di se stesso, Genesis, colui che può darsi la vita, generarsi, costruirsi e fondersi con chi ama.
Fa pensare ad uno specchio l’intero film, che, tra il footage ed il cut – up, appare come leitmotiv commovente e malinconico di un documento che mette in scena l’intima necessità di esplorare l’altra parte di sé, decostruendosi e ricostruendosi in una nuova identità, la “terza mente” di William Borroughs.
Così lo specchio appare non solo come oggetto quando Gen e Jaye si truccano, si travestono e si prendono cura di se stessi, ma come l’idea che rivela la creazione, un simbolo – poetico scenario nel quale vedersi, riconoscersi e scoprirsi – mentre scivola silenziosa attraverso un montaggio vorticoso e psichedelico di una vita vissuta nel pieno delle proprie forze e volontà.
Martina Bonichi