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Taxidrivers Magazine

29. Torino Film Festival: “Into the Abyss” di Werner Herzog (Festa mobile)

Anche per un veterano del cinema documentario come Werner Herzog il tema della pena di morte rimane spinoso. Il film sembra non riuscire a prendere una direzione univoca, perché risente della mancanza di organizzazione del materiale che forse non poteva essere fatta a priori

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Anno: 2011

Durata: 105′

Genere: Documentario

Nazionalità: Germania/Canada

Regia: Werner Herzog

Anche per un veterano del cinema documentario come Werner Herzog il tema della pena di morte rimane spinoso. Lo scrive lui stesso nella lettera che sostituisce la sua presenza al Torino Film Festival 2011, letta prima dello proiezione: addirittura in fase di montaggio, dove molto spesso un documentario vive un’ulteriore genesi, lui e il suo montatore di fiducia hanno ricominciato a fumare dopo anni, tanto erano palpabili le difficoltà a cui andavano incontro. Questa mancanza di tranquillità si palesa fin dai primi momenti di Into the Abyss. Il lavoro, che sconta anche qualche piccola sbavatura tecnica (addirittura in molte inquadrature non è difficile scorgere l’operatore riflesso nei vetri e negli specchi all’interno del quadro), sembra non riuscire a prendere una direzione univoca, perché risente della mancanza di organizzazione del materiale che forse non poteva essere fatta a priori.

La pena di morte, in questo caso, è lo sfondo per raccontare la storia drammatica di due giovani che, all’epoca dei fatti (triplice omicidio per impossessarsi di una Camaro rosso fuoco), erano poco più che adolescenti, tossicodipendenti e senza casa. Sarebbe quasi da ridefinire il protagonista del film: non i ragazzi, non la pena capitale, quanto lo stato del Texas, le sue contraddizioni, la difficile situazione socio-economica in cui versano alcune frange di cittadini.

Funziona bene la scelta di non schierarsi apertamente, di analizzare profondamente il delitto che ha portato all’esecuzione capitale del malcapitato protagonista, e funziona altrettanto bene la divisione in capitoli, che contribuisce a conferire ritmo ad un lavoro che però appare inevitabilmente dilatato. Forse le interviste raccolte, le testimonianze dei parenti delle vittime e degli accusati, dei secondini, della moglie di uno dei condannati, non giustificano la forma del lungometraggio. Così come buona parte delle coperture appaiono proprio tali: immagini con cui ritmare il lavoro, ma prive di ogni alcuna rilevanza narrativa. Come se non bastasse, l’atteggiamento di Herzog in alcune domande è più ‘turistico’ e ‘curioso’ che pungente e profondo. Insomma, la mano non sembra la stessa del regista di Grizzly Man.

Michelangelo Pasini

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