
Dolorosa da guardare, difficile da digerire, dibattuta la possibilità di sceglierla. La morte assistita, questione bioetica oggetto di accesi scontri soprattutto nel nostro Paese impantanato in diatribe confessionali, è, invece, una realtà concreta in Oregon. Dal 1994 un referendum popolare ha infatti decretato la legalità del suicidio assistito per le vittime di malattie incurabili a cui due medici abbiano pronosticato meno di sei mesi di vita. Da allora, più di 500 malati terminali sono ricorsi a questa legge liberale. Lo statunitense Peter D. Richardson filma un documentario intimo e sofferto sulla quotidianità di alcuni pazienti affetti da una male senza cura che, ben consapevoli del significato di una vita dignitosa, hanno deciso di ingerire la dose letale di barbiturici. Triste rivelazione della sezione Extra del Festival del Cinema di Roma, How to Die in Oregon non fa sconti e già nelle prime provocatorie scene condensa l’atmosfera pesante a cui lo spettatore deve arrendersi. Siamo nella stanza in cui un uomo sta per porre fine alla sua esistenza. Un’accolita di famigliari si stringe intorno a lui per l’estremo saluto insieme a una volontario dell’organizzazione no profit Compassion&Choices che, da protocollo, porge le due domande per accertarsi dell’intenzione cosciente. Davanti all’uomo si profila una vita divorata dalla malattia, dietro l’affetto dei suoi cari, nell’istante immortalato dalla macchina da presa una pozione letale. Con urgenza lucida e liberatoria l’uomo beve. E si spegne.
Richardson non patteggia con noi e non lo fanno neanche i protagonisti della sua ricerca precisa e coinvolgente. Senza indugi, ci mostra il sostrato intimo dell’ultimo atto decisionale dell’essere umano, quello con cui si accomiata dalla vita. In How to Die in Oregon la disquisizione strettamente etica o politica è tralasciata a favore di uno sguardo concentrato su prospettive più personali: rinunciando all’imparzialità o all’esaustività della trattazione, Richardson parteggia per il diritto di decidere liberamente di morire. Nei 107 minuti di proiezione molti volti entrano nella scena, ognuno di loro ha una storia a scadenza da raccontare, ogni storia ha un cocktail letale chiuso nel cassetto da tirar fuori al momento opportuno. Tra le tante interviste – in cui non mancano lotte personali per ottenere l’approvazione della legge sulla ‘liberalizzazione della morte’ e incursioni nel lato oscuro del potere dove la disumanità delle istituzioni è pronta a finanziare la morte invece della cura – la macchina da presa sceglie di addentrarsi con fare quasi voyeuristico nella vita di Cody Curtis, madre e moglie di 54 anni, affetta da un inguaribile tumore al fegato. Toccato dalla sorte funesta che incombe spietata su Cody, il documentario prende la forma di un viaggio nei sentimenti incostanti della bella, intelligente e comunicativa donna. La ragionevolezza la spinge a lottare finché la dignità guida la sua vita e a scegliere il suicidio assistito quando la sofferenza annulla ogni possibilità di una vita definibile tale. È con la storia di Cody che Richardson si libera del distacco documentaristico per prediligere un approccio emotivo ed empatico con cui trascinare lo spettatore nell’universo emozionale dei pazienti. Il suo schieramento è chiaro, come lo è anche la via d’accesso al problematico tema.
In un’operazione al limite tra l’oggettività documentaristica e l’introspezione privata, How to Die in Oregon ha l’indiscutibile merito di insistere sulla difficoltà di una scelta tutt’altro che arrendevole o sbrigativa. Lo spiazzante documentario del regista (produttore, montatore e fotografo) di Portland, autore del lungometraggio Clear Cut: The Story Of Philomath presentato al Sundance Film Festival nel 2006, si costruisce sull’intima partecipazione al dolore dei malati terminali, in un crescendo di dolcezza che la quotidiana lotta di Cody alimenta. Così, se l’incipit ci scuote per la sua sconcertante violenza, il gran finale ci commuove per la sua poetica sottrazione.
Francesca Vantaggiato