Qual è l’eredità che un artista gigantesco e poliedrico come Orson Wells (1915 – 1985) lascia al Ventunesimo secolo? Prova a chiederselo, con accento nordirlandese, il documentarista Mark Cousins ne Lo sguardo di Orson Welles, disponibile su MUBI.
La voce di Cousins, lo sguardo di Welles
Nel film, presentato in Italia al Biografilm Festival del 2018 e uscito in qualche nostra sala quello stesso anno, la voce di Cousins ci accompagna attraverso una vera e propria interpellazione in seconda persona a Welles stesso: una sorta di lettera intima al geniale cineasta scomparso. Mark Cousins, nato a Belfast nel 1965, ha dedicato spesso i suoi documentari alla storia del cinema e ai suoi protagonisti. Insomma, è un regista metacinematografico e non si smentisce nemmeno questa volta.
“Il mondo è diventato più wellesiano, Orson”.
Ovvero: come C.F. Kane, i magnati hanno assunto il potere politico in prima persona, mentre nel frattempo l’immagine impera ovunque – molto più della parola.
È questo lo spunto che dà inizio a un viaggio visivo nella vita dell’autore di Quarto Potere, compiuto a partire dal ritrovamento di una scatola di suoi disegni, in buona parte inediti: schizzi, bozzetti, caricature di cui Cousins si serve per tentare una (ulteriore) rilettura dell’opera del cineasta di Kenosha, Wisconsin.
“Disegnavi in modo compulsivo”,
afferma Cousins.
“Ho iniziato a dipingere all’età di nove anni. È ciò che ho sempre amato di più. (…) Non sono mai stato affascinato dai film in se stessi; non quanto lo fossi dalla magia, dai combattimenti dei tori o dal dipingere”,
conferma Welles stesso.
Tra i disegni di Orson
Questa escursione tra gli sketches ritrovati del regista de L’infernale Quinlan serve al documentarista irlandese per sottolineare il carattere grafico e spaziale di molte inquadrature e sequenze dei film di Wells, nonché a isolare alcune tematiche ricorrenti nella sua opera (e nella sua vita).
Lo sguardo di Orson Welles inizia con una ricostruzione delle possibili influenze visive su ciò che è stato, appunto, il modo di vedere di Welles: dagli studi d’arte a Chicago ai viaggi in Irlanda (il che ha sicuramente contribuito a connetterlo ancor di più, sul piano emotivo, all’autore di questo documentario), Marocco e Spagna, avvalendosi anche della testimonianza della terza figlia di Orson, Beatrice.
A partire dal suo lavoro in radio, passando attraverso quello per il teatro (a New York, con le sue epocali reinterpretazioni di Shakespeare), per approdare finalmente al cinema, viene poi ripercorsa la storia del suo pensiero e del suo impegno politico: le sue posizioni progressiste gli costano l’attenzione di un personaggio non proprio innocuo come il capo dell’FBI, J. Edgar Hoover.
Successivamente, il documentario si occupa degli oggetti e delle modalità dell’amore di Welles: quello per le donne, ovviamente (tra tutte, Rita Hayworth), ma anche quello per i luoghi, soffermandosi infine sull’ossessione per la cavalleria e per i vari aspetti della regalità, compresi quelli più ambigui e oscuri.
Sicuramente questo lavoro getta ulteriore fascino, se mai ce ne fosse bisogno, sull’opera wellesiana, sottolineandone ancora una volta la portata anche a distanza di diversi decenni. Crediamo però che possa essere apprezzato appieno soltanto da chi conosce questo corpus già piuttosto bene: un fan, insomma, proprio come l’autore di questo omaggio appassionato.
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