‘Taming the Garden’ di Salomé Jashi su MUBI, attenti al collezionista di alberi
Nel documentario della regista georgiana, il trasporto di alberi sradicati dalle zone costiere della Georgia presso il giardino di un ricco ex ministro sembra osservato dal punto di vista della natura violata in immagini di profonda suggestione visiva. Bellezza per meditare
Tra le nuove voci del cinema georgiano c’è anche quella di Salomé Jashi, regista di Taming the Garden. A farla risuonare, nella sezione dedicata alle più recenti e originali espressioni del cinema del paese dell’est Europa, è la piattaforma d’autore MUBI, dopo una circuitazione già dignitosa nei festival internazionali (Berlino, Sundance, Locarno). Pure, la prima voce del bel documentario è quella della natura, assai prossima al silenzio. Il mare che inazzurra le figurette dei pescatori, confondendosi all’orizzonte col cielo; i boschi al tramonto, dove si leva la foschia delle brughiere desolate. Poco oltre, le prime parole dei taglia-alberi: ora più vicine, nelle chiacchiere oziose colte spiando; ora a distanza, confuse con l’alito del vento tra le fronde. Immagini per meditare.
Benché muova da un fatto di cronaca dai risvolti socio-politici – un milionario compra e fa espiantare alberi secolari dalla costa per arricchire il proprio giardino personale – Taming the Garden è infatti un documentario di profonda suggestione contemplativa, il cui originale dispositivo capovolge le logiche dell’osservazione e induce a pensare.
Il trailer
La trama
Il documentario segue il faticoso e dispendioso trasporto di alberi dalla costa della Repubblica di Georgia al giardino privato dell’ex primo ministro del Paese. (Fonte: MUBI)
La natura
In Taming the Garden di Salomé Jashi, l’ipotesi di conflitto è data dal titolo. Il domare o addomesticare, come gesto dell’uomo, s’inserisce nel contesto del giardino della natura facendone piuttosto il giardino del capriccio. La vicenda del magnate a caccia di alberi diventa lo spunto per una riflessione elevata sulla scala della filosofia ecologica e tradotta incisivamente per immagini.
L’insistenza sui lavori manuali e sul cigolare di tubi e macchinari che entrano come torpedini nel terreno sembra quasi produrre l’effetto di una violenza dell’inorganico e dell’artificiale sulla natura, altrove ripresa in scorci immoti di lirica bellezza solitaria. La stasi di campi lunghi e panorami fa spazio, con progressioni lentissime, all’avanzare ritmico di una ruspa o alla mimetizzazione cromatica di una gru, che quasi non distingui dalle rocce o dal pendio. Sono movimenti della stessa inesorabile lentezza di un ciclo stagionale. L’azione dell’uomo, per quanto forzosa, si integra visivamente per potenza cinematografica allo stesso ecosistema violato. Intrusa, minuscola o parassitaria, la presenza umana è ineludibile.
Il cattivo potatore
Ma anche l’assenza si fa sentire. Tra tanta natura, entro tanta vox populi di contadini e abitanti dei villaggi che osservano e spesso lamentano le incursioni dei cantieri e dei cingolati, si fa spazio l’ombra del villain. La personalità emergente è proprio quella del committente, il misterioso milionario, la cui identità si svela poi per bocca d’altri. La sua invisibilità è fascinosa, quanto l’implicito gigantismo del suo esercizio di dominio della natura. Ma non c’è dubbio: la sua è un’azione aggressiva. Se non verso i proprietari dei terreni – spesso ben remunerati – quantomeno verso gli alberi e le comunità. Continuamente evocato nel chiacchiericcio degli operai o nel gossip della povera gente, il collezionista di alberi assurge ad una sorta di idolo arcano, un dio del quale non sia dato scrutare né fattezze, né volontà:
Continuo a non capire perché lo stia facendo. Perché lo sta facendo? Per cosa lo sta facendo?
Così, molti dei lavori si svolgono in mesmerizzanti scene notturne, col favore o lo sfavore delle tenebre. L’ingresso di un albero secolare mastodontico nella propria destinazione, o il suo trasposto in campo lungo su una barca, si svolgono con la cadenza del rituale religioso.
Taming the Garden: l’albero arriva come la statua di un dio su una barca rituale.
È pressoché il trasporto di una statua colossale al tempio, o di una processione di flagellanti che piangono l’addio dell’essere vivente alla terra. Sono sequenze di ipnosi e di sacralità profanata.
“Come alberi feriti noi”
Ad applicare in maniera fantasiosa, ma fondata, la stessa logica di analisi che si svolgerebbe per una narrazione, in Taming the Gardenoltre al cattivo andrebbero identificati altri personaggi: gli alberi. Gli operai parlano intorno al fuoco come se ogni albero avesse una storia, un’individualità, un carattere. C’è quello che veniva da lontano, stupendo; quello col tronco biforcuto; quello dalle radici enormi, o ancora “con tutto quel muschio”.
Taming the Garden: la gente segue il trasporto dell’albero come in una processione.
I paesani commentano con rabbia, rassegnazione o perplessità. A volte, con le lacrime e la contrizione dei funerali:
I suoi rami hanno visto crescere molte generazioni.
Le sequenze da contrappunto, a camera fissa, con i soli paesaggi o l’intrico esile dei rami proiettato dabbasso sul cielo, completano il dialogo muto con la natura. Un albero è persino visto in una sorta di soggettiva, mentre, issato sull’imbarcazione, si lascia alle spalle il paesaggio. Che, come preesistendo all’uomo, lo osserva invadere. Si rovescia la logica del documentario osservativo: la natura ci guarda, anziché essere guardata. Il giardino guarda il suo domatore. Quanto è fertile la meditazione di Taming the Garden.
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