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‘Moving on’ di Yoon Danbi su MUBI, il nuovo cinema sudcoreano è una famiglia senza parassiti

Il film d'esordio della regista sudcoreana, premiato al Festival di Rotterdam nel 2020, è un dramma familiare delicato fatto di piccoli haiku visivi e riposto nello sguardo emotivo di un'adolescente dai genitori separati. C'è già una "famiglia" di cineasti oltre Bong Joon-ho

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Sei entusiasta di andare dal nonno? – Non proprio“. Sulla bocca del bambino, che risponde al padre, c’è la voce della verità. Che è anche negli occhi della sorella diciottenne, nella scena immediatamente precedente, prologo a Moving on di Yoon Danbi: prima di trasferirsi dal nonno col fratellino e col padre in bancarotta, la ragazza si attarda in un commiato silenzioso e interminabile alla casa che sta per abbandonare. Sarà proprio tra le pareti della nuova dimora, palpitanti di memoria, che prenderanno vita i piccoli racconti del quotidiano nel film d’esordio della regista sudcoreana.

Vincitore del Bright Future Award a Rotterdam 2020, applaudito al Festival di Torino e ora disponibile su MUBI, Moving on è un dramma familiare irresistibile nel passo delicato, una poesia degli affetti – anche mancati – dall’impeccabile metrica stilistica e ricca di assonanze intime.

La trama

Nella torrida estate di Inchon, città portuale vicino Seul, Byung-kie (Yang Heung-ju), separato e in bancarotta, va a vivere dal padre insieme alla figlia appena maggiorenne, Okju (Choi Jung-un), e al figlio di dieci anni, Dongju (Park Seung-jun). Col nonno, invero, i nipoti hanno da anni perso i contatti. Labile, quasi nulla è anche la presenza della madre, che ha abbandonato il nido familiare dopo la separazione. Mentre Dongju si ambienta rapidamente nella casa, scoprendone anfratti e cianfrusaglie tra i piani vetrati e il giardino, Okju sembra dapprima sentirsi a disagio, non estranei i turbamenti dell’adolescenza.

Alla famiglia minorata – per l’assenza della madre – e allargata – dalla presenza del nonno – si aggiunge presto la zia Mijeong (Park Hyeon-yeong), a sua volta alle prese con un divorzio. Mentre le condizioni del nonno, silenzioso guardiano della casa, vanno deteriorandosi, Okju ha modo di scoprire quotidianamente, tra perdonabili litigi, mezze confessioni e intese abbozzate, il senso dei legami affettivi. E i margini delle proprie ferite.

Un coming of family

Scegliendo in prevalenza, per i propri snodi emozionali, la prospettiva della diciottenne Okju, Moving on di Yoon Danbi potrebbe facilmente leggersi come il classico coming of age. La scrittura drammatica, con cui la regista dichiara di aver rielaborato il proprio vissuto, è tuttavia strutturalmente più complessa. Da un lato, cioè, è vero che la fotografia di Kim Gi-hyeon asseconda spesso le percezioni della protagonista: sole raggiante sulla panchina dove Okju incontra il coetaneo per cui ha una cotta; l’oscurità della vergogna nell’abitacolo del camioncino del padre – e nemmeno a guardarlo negli occhi – quando capisce che il genitore traffica scarpe contraffatte; i toni caldi del legno nell’esplorazione incuriosita della casa.

Okju su una panchina vede il ragazzo provarsi le scarpe

Moving on: Okju regala delle scarpe a un compagno

Dall’altro lato, però, è altrettanto significativo che la narrazione sia studiatamente articolata in quadretti, spesso con camera fissa, che ritraggono un personaggio, coppie o più membri della famiglia nell’interazione quotidiana. Se non si rischiasse di mettere sulla falsa pista della superficialità, si direbbe un film per vignette, soprattutto nella prima parte. Meglio eludere il frainteso, osando parlare, semmai, di un film per haiku visivi: scene brevi, dall’apparenza semplice e dall’essenza spesso rivelatrice.

Okju, padre e zia seduti sul pavimento conversando

Moving on: una scena di interni con Okju (a sinistra), il padre e la zia

Il piccolo Dongju balla da solo davanti a un vecchio stereo: la casa sconosciuta comincia a diventare una cuccagna. Okju deve riaccompagnare in camera la zia, mezza ubriaca, nel primo divertito germe di complicità. Byung-kie riverisce l’anziano genitore con l’ultimo sguardo prima di andare a dormire, o col dono spontaneo dei frutti dolci colti in giardino. È un coming of family, allora: una strada di riscoperta dell’unione familiare, lastricata da gesti minimi e riflessioni sotterranee.

Il design dell’interiorità

Al contrario dei passaggi segreti per scantinati degli orrori del Premio Oscar Parasite, la casa del nonno di Moving on è un alveo generazionale, un luogo parlante che trasuda ricordi di famiglia. Negli intagli floreali degli armadi, così come tra foto, kakemono e vhs. L’insistenza sugli interni, evidente, è enfatizzata sia dal finale, sia dalla consuetudine di raccontare molte delle scene facendo affacciare lo spettatore in camera o tenendolo a distanza. Tra gli stipiti di una porta o dietro le vetrate di una finestratura, Yoon Danbi è soprattutto designer dell’interiorità, intagliatrice di dialoghi genuini.

Dongju e Okju dividono un pasto

Moving on: Dongju e Okju mentre mangiano, in una tipica inquadratura del film tra gli stipiti

Nel bisbiglio notturno, distese a prender sonno sotto la zanzariera, zia e nipote si aprono, o meglio, si dischiudono appena. La prima ricorda di quando veniva cullata dalla madre – ma forse è un falso ricordo; la seconda accenna all’assenza della genitrice, ma poi passa, in uno slancio confidente, a confessare del ragazzo che le piace. Significativo che dialoghi cruciali di Byung-kie con la sorella, su come ci si senta ad essere messi in una casa di riposo dai figli e su cosa fare della casa del padre, siano inframezzati dalle banali chiacchiere meteorologiche: l’estate, l’inverno. In mezzo a stagioni della vita familiare. Il flusso della vita può anche essere rielaborato tra un pasto alla svelta e un salto al centro in auto.

La donna che non c’era

Se buoni registi fanno parlare gli ambienti, ottimi registi fanno parlare gli assenti. Nel ritessere la vita familiare, sul filo dell’esperienza presente intrecciato ai quello dei ricordi, il nodo è nella lontananza della madre. Il ritratto della donna lontana è un capolavoro dell’assenza. Evocata solo dai regali mandati ai figli, da mezzi inchini sfocati nella camera ardente, dall’anonimato collettivo di una tavolata, è il personaggio forse più riuscito di Moving on, senza nemmeno essere un personaggio. Ed è commovente come la stessa ragazza elabori l’assenza diventando una madre per il fratellino. Nella zuffa, quando mena per aria i regali mandati dalla madre, che Dongju ha incontrato di nascosto, innocentemente, e che la sorella non può perdonare per l’abbandono. Nella protezione, quando cela al bambino le notizie sulla condizione del nonno. Ma resta, pur sempre, solo una ragazza. Con la bici per andare a un appuntamento; con gli occhi lucidi per un dolore.

Il cinema sudcoreano oltre Parasite

Si tratta, alla fine, di questo: di elaborare assenze per andare avanti. Moving on, appunto. Ma il prezioso film di Yoon Danbi non è un film a tesi. Inutile cercarne il valore nei paragoni di varia sorta con l’universo filmico orientale, da Hirokazu Kore’eda, a Edward Yang, fino alla connazionale Yoon Ga-eun, meravigliosa esploratrice di storie di gioventù. La forza di Yoon Danbi è nel mostrare, più che nel dimostrare. La famiglia, come l’animo umano, è un guazzabuglio, e nel quotidiano i silenzi, non meno dei piccoli gesti, rivelano ogni sfumatura emotiva, raccontano nell’insignificante. I personaggi non sono sagome drammatiche, para-umani, parasites di un plot cerebrale che si scioglie in maniera calibrata. Al contrario: sono esseri vivi. Ed è meglio che si sciolgano in lacrime, piuttosto. Il nuovo cinema coreano, già oltre Bong Joon-ho, è in questa vibrazione emotiva, in questo “lessico famigliare”: let’s move on.

La recensione di Rita Andreetti dal Torino Film Festival

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Moving on

  • Anno: 2019
  • Durata: 105'
  • Distribuzione: MUBI
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Corea del Sud
  • Regia: Yoon Danbi
  • Data di uscita: 11-October-2021